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XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

Sap 9,13-18   Sal 89   Fm 1,9-10.12-17 

 

+ Dal Vangelo secondo Luca Lc 14,25-33

Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.

Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.

Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.

Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.

Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

Lectio divina

Se è vero che il cristiano non cerca i primi posti per essere visibile e non è un arrampicatore sociale per guadagnare posizioni di potere, è altrettanto vero che non può e non deve essere “invisibile”, cioè senza sapore e colore, ma ha la missione di essere “trasparenza di Dio”.

Il dramma di ogni uomo, e del cristiano in particolare, è quello di essere insignificante. Il rischio reale è quello di essere contenitori senza contenuto, barattoli vuoti, fiori di plastica, corpi senz’anima.

Falso non è solo il contrario di vero, ma anche l’opposto di vitale e portatore di senso.

Finzione e insignificanza s’intrecciano in un connubio malefico che indurisce il cuore di chi si concentra più a curare l’apparenza ed è attento al giudizio altrui piuttosto che riflettere sul significato di quello che fa e discernere ciò che è bene operare nella propria vita.

Gesù si ferma ad osservare i suoi seguaci il cui numero cresceva sempre di più. Gli occhi con i quali analizza la situazione non sono quelli dell’ambizioso che brama consensi e fama, ma quelli di chi cerca il volto di Dio, amore misericordioso, e si fissano sul suo cuore di Padre in cui sono custoditi i sogni più belli che riguardano gli uomini. Gesù conosce ciò che c’è nel cuore degli uomini e soprattutto in quelli che lo seguono. Sa che i loro ragionamenti sono incerti perché viziati dall’ambizione e dall’orgoglio, come ammette anche l’autore del Libro della Sapienza (prima lettura). Seguire Gesù vuole dire imitarlo nell’opera del discernimento per comprendere quale sia la volontà di Dio e come fare della propria vita un sacrificio a Lui gradito. Gesù accoglie con sé chi, rinunciando alle proprie ambizioni personali accetta di mettersi alla sua scuola per diventare come lui sacerdote misericordioso e fedele.

Paolo, vecchio e in catene, guarda Onesimo e Filemone con lo stesso sguardo, mite e benevolo. Ha generati entrambi alla fede, anche se attraverso percorsi diversi; ora li esorta ad accogliersi come fratelli e ad amarsi reciprocamente con lo stesso amore con cui Dio li ha amati. Ognuno di loro deve compiere un cammino di purificazione per andarsi incontro e abbracciarsi come figli e fratelli.

Probabilmente Onesimo era scappato dalla casa di Filemone, di cui era servo, per cercare la libertà ma aveva trovato le catene del carcere. Lì la provvidenza li aveva fatti incontrare e Onesimo, convertito alla fede cristiana, aveva compreso che la libertà non coincideva con il riscatto sociale, ma nel passare dall’essere schiavo al servire con amore. Filemone, uomo ricco, aveva già fatto il suo percorso di conversione e ora Paolo gli chiede di mettere da parte il suo orgoglio e di riaccogliere come un figlio il suo servo. Filemone e Onesimo, nella crisi che aveva incrinato il loro rapporto personale, comprendono il senso più profondo dell’essere discepoli di Gesù Cristo.

Chi segue Cristo non punta orgogliosamente ad essere perfetto esecutore di una legge, ma matura il desiderio di essere autentico testimone dell’amore di Dio nella vita fraterna.

Per tre volte Gesù ripete “non può essere mio discepolo” indicando le condizioni per fare una vera scelta cristiana.

Gesù in maniera volutamente provocatoria pone come prima condizione l’odio. L’effetto destabilizzante del modo di parlare di Gesù ha lo scopo di indurre l’ascoltatore ad esaminarsi non in base alla legge, ma alla luce del rapporto con lui. Nel linguaggio biblico odiare significa dissociarsi, trascurare. Quando riguarda le persone, questo sentimento traccia una linea di demarcazione tra l’essere dipendenti dalle scelte o bisogni altrui e l’essere autonomi, cioè rispondenti alla propria coscienza. Le scelte che compie il discepolo di Cristo sono responsabili nella misura in cui rispondono innanzitutto alla volontà di Dio; quel Dio, peraltro, che non conduce in un mondo virtuale, ma che accompagna nel cammino della maturità umana e delle relazioni fraterne basate sul rispetto e l’amore, soprattutto dei più deboli.

L’odio di cui parla Gesù non porta all’uso della violenza per rompere le relazioni con gli altri, anche a costo di rimanere soli. Al contrario, è una forma di purificazione e crescita personale per vivere le relazioni in modo sano e costruttivo. Chi ama veramente sa anche odiare, cioè prendere le distanze e distaccarsi dal proprio egoismo, dallo stile capriccioso e ricattatorio che cerca di piegare o “convertire” l’altro al proprio volere. Senza questa condizione di distacco non si può maturare una scelta d’amore libera, consapevole e responsabile.

Senza la rinuncia a vivere le relazioni, di per sé buone, come lo farebbe una persona immatura, esse rimangono in piedi come uno stabile disabitato o come un sepolcro imbiancato. Tutti gli affetti sono buoni, ma senza un processo di maturazione, essi si trasformano in una maledizione. Un amore che rimane nella sua fase incipiente si trasforma nel suo opposto. Un amore che passa attraverso il crogiuolo delle crisi e viene purificato fa delle relazioni familiari una profezia della comunione dei santi.

La seconda condizione mette a fuoco la necessità di non scaricare la propria croce sugli altri, colpevolizzandoli, ma di accettare serenamente i propri limiti. Infatti, le due parabole suggeriscono l’idea che la vita è un processo costruttivo e al tempo stesso è una lotta. L’amore ci aiuta ad essere meno rigidi e meno fissati sulle nostre convinzioni ma più flessibili e capaci di sempre riformulare i nostri programmi in base alla realtà. È il confronto con la realtà che determina i tempi e i modi della nostra attività. Dio ci parla attraverso la storia concreta e contingente con le sue esigenze e criticità. La realtà c’interpella affinché possiamo fare le scelte più giuste in conformità alla volontà di Dio.

Portare a compimento quello che si è iniziato e vincere contro le avversità sono due cifre simboliche della vita cristiana. Essa può giungere a maturazione e superare le difficoltà nella misura in cui si guarda la propria situazione con realismo e, se ci si trova mancanti, si ha la pazienza di aspettare e l’umiltà di cercare soluzioni attraverso alleanze.

Non bisogna sfidare ma avere fiducia. Sfidare ha la stessa radice di sfiduciare e quindi di contrapporsi una continua battaglia per avere la meglio.

Nella relazione, con Dio e con i fratelli, riconoscersi mancanti non deve indurre alla vergogna, ma a riformulare i propri progetti in base alle forze che si hanno e alle condizioni in cui ci si trova. A volte le accuse che muoviamo contro gli altri sono il modo per nascondere, innanzitutto a noi stessi, fragilità e mancanze. La croce diventa terreno di scontro e contrapposizione se non addirittura un’arma per deprezzare e delegittimare l’altro.

L’accusa d’incoerenza lanciata contro gli altri funge da alibi per non prendere su di sé la responsabilità della propria croce e farne un’occasione d’incontro in cui farsi aiutare.

Mettere sulla bocca di Gesù l’invito alla rassegnazione significherebbe tradirlo e contraffare il vangelo.

Rinunciare ai propri averi è la terza condizione per essere cristiani autentici. Sia chi costruisce la torre, sia il re che va in guerra, non agisce per compiacere qualcuno o per dimostrare il suo valore. Agisce saggiamente colui che prima di decidere e scegliere, pondera, valuta e discerne. Ogni decisione è “divisione”, è “crisi” che implica lasciare e rinunciare ad accumulare per puntare tutto su Dio, a Lui orientare la volontà e offrirgli in dono la propria libertà.

Discepoli di Cristo, sacerdoti per l’umanità

Gesù detta le condizioni per le quali dirsi suoi discepoli e al contempo ne traccia i lineamenti essenziali. Il cristiano è discepolo se è disposto ad imparare dal Maestro il cui insegnamento non è riducibile a nozioni astratte ma verte essenzialmente sulla relazione spirituale con lui. Nel rapporto con Gesù è coinvolto innanzitutto il cuore affinché il discepolo possa fare suoi i sentimenti del Maestro. Luca usa il verbo «odiare» o «detestare» ma che, per non urtare la sensibilità del lettore, il traduttore ha reso con «amare più di me». Essere cristiano comporta sempre una crisi, ovvero una scelta netta e radicale che determina una rottura definitiva con l’uomo vecchio segnato da logiche mondane che appartengono al passato. Scegliere di amare Gesù significa puntare in alto con la conseguenza di ordinare verso di Lui tutti gli altri beni, effettivi e affettivi, che compongono la nostra vita. L’amore a Gesù non esclude quello alle persone più care ma, al contrario, lo ancora saldamente a Colui che ci ama per primo ed è la fonte dell’Amore. Mettere Gesù prima di qualsiasi altra cosa vuol dire porlo a fondamento e presupposto di ogni scelta d’amore; significa rinunciare a recitare nella vita la parte del protagonista per affidarla invece allo Spirito Santo. È Lui che guida, orienta, sostiene, corregge il tiro affinché possiamo fare della nostra vita un dono per gli altri e vivere veramente come il Maestro insegna. Lo Spirito Santo è il nostro Maestro interiore che ci aiuta a discernere le scelte più opportune al fine di rimanere sulla strada della nostra vocazione alla sequela di Cristo e giungere con Lui alla gloria, ovvero alla misura alta dell’amore. L’obbiettivo è diventare santi e per raggiungerlo Gesù ci avverte di fare bene i calcoli e valutare le condizioni, la prima delle quali è la necessità di accettare di essere derisi, vilipesi, perseguitati, non accettati, contrastati nella volontà di aderire a Cristo e vivere come Lui. Gesù mette in chiaro che essere cristiani non significa mettere al sicuro la propria vita ma metterla in gioco insieme a Lui. C’è un rischio da correre e prove da attraversare, ma ci assicura di essere accompagnati sempre da Lui che ci guida. Il vero fallimento sarebbe lasciare il cammino cristiano iniziato perché ci ritroviamo sprovvisti di quella forza necessaria per andare avanti, fino al compimento del nostro destino, che è lo Spirito Santo.

Signore Gesù, maestro e guida sulla via della santità, indicami sempre la vetta dell’amore verso cui orientare il desiderio del cuore perché le logiche mondane non corrompano il legame spirituale che mi unisce a Te e le resistenze, opposte da coloro che sono estranei alla fede, non mi scoraggino nel proseguire la sequela dietro a Te. Donami il tuo Spirito di prudenza e di saggezza perché, rifuggendo la tentazione di anteporre le mie attese al tuo volere, possa discernere la tua volontà subordinando ad essa la mia. Fammi sentire il tuo sostegno nella solitudine, il tuo incoraggiamento quando avverto il senso di impotenza o di fallimento. Alimenta la speranza nella delusione e fa ardere il cuore della tua carità per orientarmi nell’incertezza di fronte alle scelte importanti della vita e all’assunzione di responsabilità di servizio. Fa di me sacerdote per l’umanità.