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Novena di NataleDalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici17 dicembre

Dal Vangelo secondo Marco (6, 34-44)

Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». Ma egli rispose loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». Ma egli disse loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Si informarono e dissero: «Cinque, e due pesci». E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.

Gesù guida i suoi discepoli in un luogo deserto dove poter fare esperienza d’intimità. Ma la gente, che ha intuito la direzione presa dalla barca, li precede. Istintivamente tutti avremmo interpretato la presenza della folla come una fastidiosa interferenza e una sgradita intrusione con i progetti di meritato riposo. Gesù davanti a quella gente prova una grande compassione perché sente che proprio quelle persone sono il deserto da abitare. Il deserto è quella condizione di vita nella quale senti una profonda solitudine e guardandoti dentro trovi solo legami spezzati. La sofferenza più dolorosa è quella di sentirsi rifiutati, ignorati, disprezzati e isolati, e quindi convincersi di essere inutili, indegni, incompresi, non amati. Essere come pecore senza pastore significa vivere in una comunità frammentata in cui le famiglie vivono divise da distanze fisiche ed emotive, le amicizie sono sporadiche ed utilitaristiche. La sofferenza abita nel cuore che sa di essere spezzato e l’angoscia nasce dalla frustrazione del desiderio di comunione che ci pervade dal profondo. La compassione porta Gesù non a prendere le distanze da quella sofferenza ma ad andarle incontro cogliendo in essa il desiderio di trovare un posto nel quale sentirsi protetti e al sicuro. Lui stesso sperimenta la solitudine dei legami spezzati con i discepoli quando gli suggeriscono di congedare la folla perché possano arrangiarsi come possono per trovare di che mangiare. Anche i discepoli sono come pecore che non hanno pastore che ragionano secondo la logica individualistica per la quale ognuno si salva da sé e come può. Questa mentalità è l’esatto contrario della compassione. L’istintività umana porta ad evitare la sofferenza, a tenerla a distanza, a ignorarla, aggirarla o negarla. I discepoli non comprendono che la gente, ma in fondo anche loro, non cerca innanzitutto pane da mangiare né qualcuno che glielo vada a comprare al posto suo ma compagni con i quali condividere la povertà e la sofferenza. Darsi agli altri non significa sostituirsi a loro ma vuol dire avere uno sguardo nuovo su sé stessi, guardare la propria povertà non come ostacolo alla propria felicità ma come opportunità per realizzare da protagonisti l’anelito più profondo alla comunione. Accogliere la sofferenza altrui, senza la presunzione di offrire soluzioni, ci permette di accettare il fatto di essere anche noi come pecore mancanti del pastore e bisognose di ritrovare una guida che ci accompagni ai pascoli. Gesù ci aiuta a fare dei nostri deserti di solitudine pascoli dell’intimità umana nei quali ritrovare il gusto dello stare insieme, in piccoli o in grandi gruppi, in coppia o in casa, in chiesa come nella società. Nel gesto dello spezzare il pane si rivela il senso della compassione che conduce a farsi vicino a chi soffre per sostenerlo nella lotta a mantenere viva la speranza che oltre l’angoscia c’è la pace, oltre la morte c’è la vita e oltre la paura c’è l’amore. Il pane spezzato è il sacramento della vita di Cristo che fa della sua vita spezzata, della sua sofferenza, il mezzo per arrivare alla gioia, la via per raggiungere la pace.  

Signore Gesù, buon Pastore che hai compassione di noi e cogli nei nostri cuori spezzati la sofferenza e il nostro bisogno più profondo di amore, insegnaci a non cedere all’istinto che ci induce a rifiutare la povertà e a rinnegare la nostra appartenenza alla famiglia di Dio. La tua sapienza ci educhi a sguardi che non alimentano giudizi e sensi di colpa, ma che ci aprano ad una visione della realtà più intelligente e luminosa di speranza. Aiutaci a fare delle nostre vite spezzate delle vite donate con fiducia affinché nessuno si senta abbandonato nella sua solitudine ma tutti possano sperimentare la gioia di essere destinatari di un dono che guarisce l’angoscia e restituisce la dignità a chi l’ha smarrita credendo maggiormente in sé stessi quali figli amati e benedetti da Dio.