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XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) – Lectio divina

Es 22,20-26   Sal 17   1Ts 1,5-10   Mt 22,34-40: Amerai il Signore tuo Dio, e il tuo prossimo come te stesso.

O Padre, che per amore

continuamente crei e rinnovi il mondo,

donaci la gioia di un cuore libero e pacificato,

capace di amare te sopra ogni cosa

e il prossimo come noi stessi.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.


Dal libro dell’Èsodo Es 22,20-26

Se maltratterete la vedova e l’orfano, la mia ira si accenderà contro di voi.

Così dice il Signore:

«Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto.

Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.

Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse.

Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».

Dalla parte dei deboli

Queste leggi fanno parte della sezione del Libro dell’Esodo chiamato Codice dell’Alleanza. Le prescrizioni ivi contenute sono distinte, secondo il criterio contenutistico in diritto civile e penale, regole per il culto e morale sociale. Proprio in questo ambito sono inserite le leggi contenute nella pericope che la liturgia presenta questa domenica.

Al decalogo, col quale Dio ha stipulato l’alleanza con Israele, si aggiungono altre prescrizioni che ne contestualizzano il valore e attualizzano il significato. La prima parte delle Dieci parole riguarda il rapporto con Dio che si è rivelato a Mosè e che ha mostrato la sua forza nell’esodo dall’Egitto. La seconda parte è in comune con molte culture antiche e testimonia l’esistenza di un antico diritto consuetudinario che ha funto da fonte comune e che si è differenziato secondo gli ambienti e i popoli.

In un’epoca in cui la schiavitù era una realtà diffusa e accettata soprattutto perché con essa si marcava la differenza tra gli indigeni e residenti proprietari della terra e i forestieri nomadi ed emigranti. Quest’ultimi era più facilmente oggetto di sfruttamento. L’esperienza della pasqua determina una riformulazioni di convenzioni sociali consolidate. Il rispetto per il forestiero non risiede tanto nella dignità della persona in quanto tale ma nel fatto che Dio si è preso cura degli Israeliti proprio quando erano stati resi schiavi ed erano diventati forestieri. Il comandamento del Sabato si declina nella condivisione della libertà con chi ricorda la condizione passata da cui Israele è stato riscattato dalla mano di Dio. Trattare bene un forestiero significa fare memoriale della giustizia di Dio. Israele l’ha sperimentata quando è stato liberato dalla mano potente di Dio nel momento in cui era più fragile e vulnerabile. La povertà non è solo una condizione sociologica ma anche teologica. Dio sceglie di stare dalla parte dei più deboli e prendere le loro difese. Chi obbedisce ai comandi di Dio lo imita nella sua giustizia ed è veramente figlio suo e partecipe della sua eredità.


Salmo responsoriale Sal 17

Ti amo, Signore, mia forza.

Ti amo, Signore, mia forza,

Signore, mia roccia,

mia fortezza, mio liberatore.

Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;

mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.

Invoco il Signore, degno di lode,

e sarò salvato dai miei nemici.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia,

sia esaltato il Dio della mia salvezza.

Egli concede al suo re grandi vittorie,

si mostra fedele al suo consacrato.


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 1Ts 1,5-10

Vi siete convertiti dagli idoli, per servire Dio e attendere il suo Figlio.

Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.

E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia.

Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.

Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.

La vera conversione conduce al servizio

L’apostolo Paolo al v. 4 dice: «Sappiamo bene» riferendosi al riconoscimento del fatto che all’origine della evangelizzazione a Tessalonica c’è l’iniziativa di Dio. Infatti, il Vangelo si è diffuso non solamente grazie alla parola di Paolo ma soprattutto all’azione dello Spirito che ha preparato i cuori dei Tessalonicesi ad accogliere la parola del Vangelo con gioia. Quella dei cristiani di Tessalonica non è stata un’adesione formale alla fede ma un cammino di conversione che li ha condotti a cambiare totalmente stile di vita. Il modello ispiratore non furono più gli idoli ma l’amore di Dio che essi hanno sperimentato grazie alla predicazione di Paolo e dei suoi compagni. Essa non si ridusse a semplice comunicazione di verità, concetti e istruzioni, ma gli apostoli evangelizzarono tessendo relazioni personali di amicizia. I legami fraterni sono l’alfabeto della evangelizzazione la cui eco si diffonde come il buon profumo del bene. Paolo riconosce che il Vangelo accolto coraggiosamente tra molte prove ha portato i suoi frutti. Essi sono visibili nella fede operosa dei Tessalonicesi che si sono distinti per la generosità nella colletta a favore dei poveri di Gerusalemme, benché non fossero ricchi.    

+ Dal Vangelo secondo Matteo Mt 22,34-40

Amerai il Signore tuo Dio, e il tuo prossimo come te stesso.

34Allora i farisei, avendo udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: 36“Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. 37Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. 38Questo è il grande e primo comandamento. 39Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. 40Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”.

LECTIO

Contesto

Questa è la terza diatriba teologica ed è la seconda che vede come protagonisti i farisei, in particolare, uno tra loro esperto di Legge. Come nella prima diatriba, l’anonimo interlocutore vuole mettere alla prova Gesù, secondo una tecnica tipica della scuola rabbinica. Dopo questa disputa in cui Gesù è interrogato, Lui interroga su una questione d’interpretazione esegetica riguardante Davide e il Messia.

Struttura

Matteo narra la disputa disponendo il breve episodio su due pannelli narrativi. Nel primo c’è il gruppo dei farisei capeggiato dal portavoce, che è un esperto della Legge (vv. 34-36) a cui corrisponde la replica di Gesù (vv. 37-40).

Il v. 34 introduce l’episodio collegandolo a quello precedente nel quale la risposta di Gesù aveva neutralizzato l’attacco dei Sadducei che lo avevano interrogato sulla risurrezione dei morti, alla quale non credevano. Il v. 35 presenta un nuovo personaggio che pure porge al Maestro una domanda per metterlo alla prova. Il v. 36 esplicita l’interrogativo del fariseo, mentre a partire dal v. 37 Gesù risponde con due citazioni della Scrittura (v. 37 e 39) attraverso le quali indica un ordine gerarchico (v.38) dei comandamenti e la necessita della mutua osservanza (v.40).

Nella tradizione ebraica la Torah, che letteralmente significa «insegnamento» e che comunemente viene identificata con la Legge, si divideva tra la forma scritta e quella orale. Il nucleo centrale della Legge sono le Dieci Parole, o Decalogo, che secondo il racconto tradizionale erano scritte sulle due tavole di pietra conservate nell’Arca dell’Alleanza. I libri dell’Esodo e del Levitico contengono altre norme, di carattere cultuale e civile, a cui poi sono state aggiunte altre più specifiche che servivano ad ampliare quanto più possibile la casistica. Nel tempo i rabbini hanno contato 613 precetti. La domanda posta dal fariseo esperto nella Legge riguarda il comandamento dal quale discendono e dipendono tutti gli altri. Il Sal 15 elenca 11 precetti, mentre Is 33,15-16 nel presenta sei, che fungono da «costituzione» sulla quale si fonda l’edificio legislativo della Torah e di tutta la tradizione normativa chiamata «halakah» (letteralmente cammino/condotta). Nelle scuole rabbiniche si discuteva su quale fosse il comandamento, o fossero i precetti, in base ai quali stabilire una gerarchia. Alcuni parlavano di precetti «pesanti» e «leggeri». Lo stesso Gesù sembra distinguere tra comandamenti «maggiori» e «minimi» (Mt 5, 19). I precetti vanno tutti osservati nello stesso modo e bisogna insegnare a metterli in pratica col proprio esempio. Il dialogo che si instaura è tra due competenti della Scrittura. Infatti Gesù, replicando ai sadducei, aveva dimostrato di avere padronanza e conoscenza delle Scritture, delle quali invece i suoi interlocutori erano ignoranti. In questo caso sembra esserci un rapporto paritetico anche se Gesù e messo alla prova per saggiare la sua preparazione di Maestro. Questo episodio è narrato anche da Marco (12, 28-34) e da Luca (10,25-28). Notiamo delle significative differenze. In Lc il dottore della Legge domanda cosa deve fare per ereditare la vita eterna e Gesù lo rimanda alla Legge. Il tale replica coniugando insieme il comando tratto da Dt 6,5, che dice di amare Dio con ogni dimensione della propria vita, con quello di Lv 19,18 che parla dell’amore al prossimo con la stessa cura riservata a sé stessi. La controreplica di Gesù conferma che i comandamenti sono «cammino» per giungere alla vita eterna che è la comunione con Dio e i fratelli.

La versione di Marco è più vicina a quella di Matteo anche se il primo comandamento risulta essere «Ascolta, Israele». L’amore a Dio e l’amore al prossimo sono effetto dell’ascolto della Parola di Dio. L’ascolto non solo unifica e armonizza i due comandamenti ma unifica e armonizza la volontà del credente con quella di Dio e con il bene dei fratelli. Nella versione di Marco e di Luca si ha un vero dialogo che aiuta ad approfondire il tema. Nel caso di terzo vangelo la questione si sposta sulla identità del prossimo. Questo dà l’occasione di narrare la parabola detta del «buon samaritano». In Matteo invece il dialogo termina con la risposta di Gesù alla domanda del fariseo, senza ulteriori sviluppi.

La risposta di Gesù è divisa in due parti, tanti quanti sono i comandamenti che compongono la legge fondamentale della fede: amare Dio e amare il prossimo. Gesù cita direttamente Dt 6,5 che è la preghiera per eccellenza per Israele che professa la sua fede nell’unico Dio che lo ha amato liberandolo dalla schiavitù e conducendolo alla terra promessa. La confessione di fede nasce dalla contemplazione dell’opera di Dio nella storia. Essa diventa anche responsabilità nei suoi confronti impegnando tutto il proprio essere nell’amarlo. Il testo in ebraico e nella traduzione greca (chiamata la Settanta) parla del cuore, dell’anima e delle forze (economiche). Matteo cita il cuore, l’anima e la mente. Amare Dio con tutto il cuore vuol dire orientare la propria volontà a Lui e aderire al suo progetto; l’anima è il soffio vitale che è dono di Dio. Amare Dio con tutta l’anima vuol dire amarlo offrendo la propria vita fino alla morte e soprattutto quando giunge la morte violenta con la quale un altro uomo sembra volerla strappare dalle nostre umane. Amare Dio con tutta la mente significa indirizzare verso di bene da lui indicato le facoltà intellettive.

L’amore al prossimo è desunto da Lv 19,18 che chiaramente fa riferimento ai rapporti conflittuali che ci possono essere tra fratelli. Il prossimo è colui che è distante perché ha commesso una colpa contro un confratello. Amare il prossimo significa non serbare rancore per il peccato commesso ma camminare con lui (farsi prossimo) per percorrere la via della riconciliazione che porta al ristabilimento della giustizia e della comunione.

I due comandamenti sono interconnessi tra loro. L’amore a Dio è la condizione per amare i prossimo e l’amore al prossimo è l’espressione concreta dell’amore a Dio. Il culto non può essere in contraddizione con la vita comunitaria ma essa è lo spazio vitale nel quale il culto diventa vera esperienza di comunione che anticipa nell’oggi il tempo finale.   

MEDITATIO

Il bisogno di amore e il desiderio di amare

Il grande comandamento è la meta a cui tende il viaggio dell’uomo. Davanti a sé ogni persona ha il futuro che è il tempo del verbo con cui è coniugato il verbo amare. Tutto l’uomo, con i suoi sentimenti, emozioni e pensieri è orientato verso il momento in cui sarà tutt’uno con Dio in quell’armonia nuziale che è la vita eterna. Dio invita tutti alla festa, di cui parlava la parabola ascoltata due domeniche fa. La festa è esperienza di comunione in cui tutti partecipano all’unico banchetto preparato da Dio e ciascuno condivide quello che ha come fece il tale che mise a disposizione i cinque pani e i due pesci e che sfamarono una moltitudine.

La via per raggiungere la salvezza è l’amore al prossimo, cioè la carità fraterna. S’impara ad amare il prossimo man mano che si apprende il modo di amare sé stessi. La vita, infatti, è un processo di maturazione fatto di fasi che va dalla fanciullezza all’adultità passando per l’adolescenza e la giovinezza. Man mano che si cresce il bisogno di amore matura in desiderio di amare. La maturità umana e spirituale parte dal bisogno di accudimento, proprio del bambino, e dalla necessità di essere riconosciuti degni di fiducia, tipica dell’adolescente, per concretizzare il desiderio di amare l’amato.

Il Signore nel comandamento esprime quello che gli sta più a cuore; i destinatari del suo amore di padre e di madre sono i più deboli e vulnerabili: il forestiero, la vedova e l’orfano, l’indigente e il misero. Dio esercita la sua forza amando e prendendosi cura di coloro che possono confidare solamente in Lui e in nessun’altro o in nient’altro. Lui stesso si dà questo comando, Dio non può non amare, se non amasse rinnegherebbe sé stesso. Le caratteristiche dell’amore di Dio diventano l’orizzonte a cui tende quello dell’uomo. Nella pagina dell’Esodo sono sottolineati quattro tratti essenziali dell’amore: il ricordo, la protezione, la giustizia, la gratuità. Dio ricorda sempre a sé stesso l’impegno preso con l’uomo di essergli accanto e aiutarlo a camminare come fa un padre e madre. L’uomo deve ricordare di essere forestiero su questa terra e che può rimanere sulla via giusta e progredire nel suo pellegrinaggio solo se si fa accogliere e lui stesso dà ospitalità agli altri. L’amore ci fa compagni di viaggio! Il secondo tratto caratteristico dell’amore di Dio è l’attenzione protettiva verso i più deboli. Il lutto è la condizione di vulnerabilità in cui si è più esposti ad essere sfruttati. La vita ci riserva esperienze di vuoto e smarrimento in cui è più facile che s’insinui la tentazione della dipendenza dall’alcool, dalle droghe o dal gioco. Dio è sempre attento al grido di aiuto, così come l’uomo deve essere pronto a cogliere e rispondere al bisogno della sorella e del fratello, soprattutto quelli che soffrono la solitudine e la mancanza di una famiglia sana e solida. La carità non specula e non è autoreferenziale. Se è vero che l’amore è generativo allora l’aiuto che si offre non può essere occasione di guadagno. Dio ci ama e non ci impone dei doveri da compiere che superano le nostre possibilità. Ogni cosa che Egli ci affida ce la presta perché noi possiamo restituire a Lui il suo amore con il servizio libero e gioioso ai fratelli. Dio non solo presta ma aiuta anche a restituire, cioè a risollevarci dal peso dei debiti nei confronti degli altri ed essere in grado di realizzare qualcosa di bello per tutti. La carità fraterna non è assistenzialismo che fa rimanere l’altro schiavo delle sue dipendenze, ma si incarna nelle relazioni di aiuto che restituiscano alla persona la dignità dell’autodeterminazione e il senso della responsabilità.

La Carità è la sorgente della vita dell’uomo perché tutto nasce dall’amore di Dio; la Carità è la via sulla quale i fratelli s’incontrano e camminano insieme aiutandosi a vicenda; la Carità è la meta, è il compimento, è tutto perché è tutto ciò che rimane quando ogni cosa finisce. L’amore è l’unico bene per cui vale la pena vivere e la vita è l’incontro tra il bisogno di amore e il desiderio di amare!

La Croce traccia le coordinate della Carità

La domanda del dottore della Legge offre a Gesù l’opportunità di esprimere il cuore della sua fede e la ragione ultima della sua missione. Ciò che lo spinge ad agire e a parlare, esponendosi così tanto da attirare l’attenzione della gente e suscitare la preoccupazione delle autorità, è il comandamento dell’amore che ha due risvolti, come le facce di una moneta. Nella croce la Legge viene compendiata nel comandamento dell’amore che in essa a sua volta trova la più alta forma espressiva. La croce, infatti, disegna le coordinate entro cui Gesù spende la sua vita. Come i bracci della croce, così l’amore a Dio e all’uomo non possono essere divisi. Non si può amare il Signore senza prendersi cura del prossimo e non è possibile avere attenzione ai fratelli prescindendo dal rapporto con Dio. L’impegno sociale nel mondo non è fine a sé stesso ma è originato dalla vocazione che nasce dal cuore di Dio e ha come prospettiva la costruzione del regno dei Cieli. La logica della croce educa ad un sano equilibrio psichico e spirituale perché, coniugando l’amore a Dio con quello fraterno, fa della carità il dono più bello che l’uomo possa ricevere e la ragione ultima di ogni servizio offerto ai fratelli.

ORATIO

Signore Gesù, Tu che sulla croce

hai dato compimento alla Legge

coniugando l’amore a Dio e al prossimo,

insegnami a non disgiungere mai

la dimensione spirituale della fede

da quella sociale.

Donami il tuo Spirito

perché l’offerta della mia vita,

posta sull’altare, sia accompagnata

dalla tenera amorevolezza

con la quale mi prendo cura dei miei fratelli.

Nel comandamento dell’amore

hai compendiato la volontà di Dio,

e obbedendo al Padre,

ci hai donato lo Spirito

affinché il bene da te promesso,

mostrato e insegnato

non sia solamente desiderato

ma anche messo in pratica.

L’amore a Dio unifichi le facoltà umane

per indirizzarle verso l’amore al prossimo,

soprattutto a colui, che nella sua insufficienza,

ricorda al cuore di ciascuno che

siamo tutti forestieri su questa terra;

essa, da deserto di contese tra avidi di potere,

diventi Terra Santa nella quale

il palo della croce sostiene e promuove

abbracci carichi di misericordia. Amen.