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Carissimi fratelli nel sacerdozio, religiose e religiosi, fedeli tutti.

Siamo qui convocati per la celebrazione solenne del Corpus Domini della nostra chiesa diocesana. La colletta ci ha ricordato che “siamo radunati in festosa assemblea per celebrare il sacramento pasquale del Corpo e del Sangue di Cristo… affinchè nella partecipazione all’unico pane e all’unico calice impariamo a condividere con i fratelli i beni della terra e del cielo”. Vogliamo fare nostra questa preghiera cha sale al Padre da tutta la nostra assemblea: gioire, essere in festa insieme come fratelli e sorelle perché ci riconosciamo nello stesso sacramento che è Cristo nostra Pasqua, principio di vita nuova. E oggi la nostra gioia comunitaria è resa ancora più piena per il dono del nuovo vescovo Benoni, pastore che guiderà nella successione apostolica, dopo il nostro caro don Pino, le nostre chiese di Matera-Irsina e di Tricarico. Un dono che con lo sguardo della fede e della carità cristiana ci aiuterà a dilatare gli spazi del cuore e della mente per accogliere i frutti della grazia che il Signore mai ha fatto, fa e farà mancare al suo Corpo mistico che siamo noi. La sua grazia infatti ci previene nel costituirci suo Corpo attraverso l’offerta di sé. Ma chiede a noi di mantenere viva la stessa grazia attraverso la condivisione fraterna “dei beni della terra e del cielo”. Perché tutto nasce da Cristo che si dona all’umanità e tutto rinasce nei fratelli che Cristo ci affida.

La prima lettura ci presenta un modello da imitare: l’offerta e la benedizione di Melchisedek ad Abram per la vittoria contro i re nemici e la restituzione della decima da parte di Abram. Offerta, benedizione, restituzione: dimensioni che si racchiudono in ogni nostra celebrazione eucaristica quando sappiamo riconoscere prima, e ringraziare poi il Signore che interviene ed è al fianco degli uomini per salvarli e liberarli da ogni forma di male. Oggi più che mai come singoli e come comunità siamo fortemente provocati nella nostra fede a collaborare con l’opera di Dio a favore di un’umanità che sembra cedere e soccombere sotto il peso delle guerre, delle reiterate violenze e delle paure che esse procurano. L’esempio del sacerdote Melchisedek che ringrazia e benedice Abram perchè ha combattuto per la salvezza della sua terra e dei suoi fratelli ci ricorda che il Signore suscita sempre nel suo popolo, ancora oggi, uomini che a lui si consacrano per sostenere la speranza, aprire lo sguardo verso il futuro, riconoscere i segni di una benevolenza che spesso ci circonda ma che non sappiano riconoscere e valorizzare. Ecco la missione di noi sacerdoti nel cuore del popolo santo di Dio. Vorremmo essere riconosciuti e valorizzati come coloro che si offrono e non si risparmiano nel farlo perché c’è un popolo da aiutare nella liberazione e nella salvezza dei beni più preziosi: la dignità umana, la pace, l’armonia tra i popoli, la custodia dei beni della terra. La nostra mediazione sacerdotale passa attraverso la piena partecipazione al sacrificio di Cristo, nostro sommo ed eterno sacerdote, che riconosciamo nell’eucaristia come Colui che si è dato per la salvezza di tutti questi beni. Questi beni finchè non li sentiamo suoi non li vivremo mai bene. Ecco perché come Abram, attraverso il simbolo della “decima”, dovremmo sempre ricordarci di restituire qualcosa di nostro a Dio che è datore di ogni bene. Se non si impara a restituire, distaccandoci dai beni, si corre il rischio di venirne schiacciati.

San Paolo conferma l’importanza e la decisività di questo atteggiamento profondamente interiore della consegna di ciò che si è ricevuto. Afferma infatti: “Ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. La vera consegna, la vera traditio è Cristo che si è lasciato tradire per consegnarsi a noi fino alla morte. Il memoriale dell’Eucarestia, cuore e centro della vera Tradizione, mantiene perennemente viva in noi la fede che Cristo è presente in mezzo a noi quando anche noi ci consegniamo agli altri. Quando le paure e gli egoismi vorrebbero isolarci o farci prevalere sugli altri, proprio noi discepoli del Cristo tradito e consegnato abbiamo la missione di ricordare che non c’è vittoria, non c’è successo, non c’è trionfo quando si vuole imprimere e imporre sulla storia la propria immagine di umanità, di potenza, di vittoria. Questa logica del mondo non ci appartiene perchè imbrocca i vicoli ciechi della sopraffazione, dello sfruttamento, dell’autodistruzione, che pensa di affrontare la complessità della vita presente con l’immediatezza dei risultati, con una pianificazione di obiettivi la cui riuscita deve risultare sempre vincente e a tutti i costi. Ci dovrebbe animare invece lo spirito di un mondo che è alla ricerca perenne del bene non ancora scoperto, che tesorizza la fragilità quale risorsa che rende uguali agli altri, che accompagna e riscatta le povertà oggi riconosciute. Il nostro mondo forse avverte, anche se non lo sa dire più, che bisogna “annunciare la morte di Cristo finchè egli venga”. Si, perché il Signore (e non il dominatore) della storia è Lui. E in Lui e grazie a Lui ogni uomo può diventare artefice di storie nuove per sé e per gli altri quando la prospettiva di vita non coincide unicamente con ciò che si consuma qui sulla terra, ma con quanto verrà consegnato e riconosciuto nell’eternità. L’eternità è la casa della speranza cristiana che Dio ha messo dentro ogni uomo, perché tutti sperano. Ma con umiltà e verità proviamo a chiederci: perché siamo tutti diventati più poveri di eternità e più ricchi di mondanità?

C’è un passaggio della sequenza che recita: “Vanno (alla carne e al sangue di Cristo) i buoni, vanno gli empi; ma diversa ne è la sorte: vita o morte provoca. Vita ai buoni, morte agli empi: nella stessa comunione ben diverso è l’esito!”. Fa bene ricordacelo sempre che non siamo destinati alla morte ma alla vita! Perciò la celebrazione dell’Eucarestia la celebriamo tutti insieme ogni giorno nelle nostre comunità, nelle nostre case di formazione, nei nostri luoghi abitati dalla sofferenza. Siamo un popolo che deve camminare verso la salvezza e non verso la perdizione. Il dono dell’Eucarestia interpella sempre la nostra libertà e la nostra capacità di figli di Dio e fratelli in Cristo che sanno e possono scegliere la vita e non la morte, senza confonderle. Aiutiamoci reciprocamente a mantenere viva la memoria di queste realtà celesti! E’ il perenne sforzo del discernimento personale e comunitario a cui siamo richiamati quando dobbiamo valutare tra ciò che è più opportuno e necessario per la salvezza e ciò che ci è lecito, solo perché richiesto, meritato o conquistato.

La parola di Gesù nel Vangelo riaccende la speranza che anche il nostro poco può diventare segno prodigioso. La stanchezza della vita, la pesantezza dei tempi e dei giorni bui in cui siamo immersi, l’invasione di immagini tenebrose possono essere rappresentate da quella prima scena che ci consegna il vangelo: “il giorno cominciava a declinare” e “ i discepoli dissero: congeda la folla… qui siamo in una zona deserta”. E’ sempre stato così: quando la vita pesa si tenta di alleggerirla con la fuga, l’abbandono, la delega, dimenticandosi magari che in questo modo la si può consegnare al nulla e al vuoto, la si può affidare alla rapacità della violenza e della malvagità propria o altrui. Ma il Signore non pensa così e soprattutto non crede questo di noi! Ma ci dice: “Voi stessi date loro da mangiare”. Cosa scorge allora in noi Cristo che ci chiede di darci agli altri? Attraverso di noi vorrebbe darsi Lui per parlare il linguaggio più bello che potessimo usare tra di noi uomini. Quello tipicamente eucaristico della compassione, della comunione, della condivisione, della collaborazione, del coinvolgimento. Tutte parole che poggiano sulla ‘con’, insieme che possiamo immaginare come il pilastro di una vita da edificare. Ecco il miracolo che solo a Cristo e ai suoi discepoli credenti può riuscire: trasformare il poco della nostra umanità in quello che ci è necessario, proprio come quei “5 pani e due pesci”. Non ci vuole molto, non ci vuole sempre tutto, ma ci occorre l’essenziale. Questa meraviglia Gesù ce la rivela attraverso una sequenza di verbi che rivelano l’agire e la pedagogia di Dio: “Prendere… alzare gli occhi al cielo… benedire… spezzare… dare per distribuire”. Cristo prendere la nostra umanità con tutto ciò che essa contiene; si rivolge al cielo perché dal Padre l’ha ricevuta; la benedice e non la maledice, perché Lui è venuto non per condannare ma per salvare; spezza il suo Corpo per dirci fino a che punto ci ama; e ce lo affida per distribuirlo perché così possiamo portarlo e toccarlo nel prossimo. Questa preziosa vita eucaristica insegnataci da Gesù può nutrire tutti senza lasciare a digiuno nessuno, perché ciò che viene riconosciuto come dono e viene distribuito come tale non si esaurisce mai. Invece si consuma tutto e subito ciò che viene posseduto avidamente, nascosto gelosamente, ostentato orgogliosamente.

Da questo può rinascere la missione della chiesa del nostro tempo che riconoscendosi discepola del Signore e serva dell’umanità la aiuta a non sbafarsi con lo sfruttamento e l’abbondanza dei mezzi propri o degli altri, con il potere dei potenti, ma a nutrirsi con l’alimento sempre genuino della gratuità e della generosità. Tutti, ricchi e poveri insieme, abbiamo qualcosa da poter condividere e scambiarci. La povertà può essere già ricchezza quando si ha il necessario; la ricchezza è già povertà quando non ha limitazioni di sorta.

A conclusione di questa celebrazione, portando il Cristo vivo e vero in processione per le nostre strade, invocheremo sulla nostra chiesa diocesana la benedizione eucaristica che ci ricorda di essere unico popolo che cammina insieme, che serve sempre lo stesso Cristo, che testimonia il vero e unico vangelo della povertà (come ci ha detto ieri il nostro vescovo Benoni in un’intervista) e che riaccende sempre la flebile fiamma della speranza la dove sembra essersi spenta. Così sia.