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I DOMENICA DI AVVENTO (ANNO A) – Lectio divina
Is 2,1-5 Sal 121 Rm 13,11-14

O Dio, che per radunare tutti i popoli nel tuo regno
hai mandato il tuo Figlio nella nostra carne,
donaci uno spirito vigilante,
perché, camminando sulle tue vie di pace,
possiamo andare incontro al Signore
quando verrà nella gloria.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.

Dal libro del profeta Isaìa Is 2,1-5
Il Signore unisce tutti i popoli nella pace eterna del suo Regno.

Messaggio che Isaìa, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.
Alla fine dei giorni,
il monte del tempio del Signore
sarà saldo sulla cima dei monti
e s’innalzerà sopra i colli,
e ad esso affluiranno tutte le genti.
Verranno molti popoli e diranno:
«Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci insegni le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri».
Poiché da Sion uscirà la legge
e da Gerusalemme la parola del Signore.
Egli sarà giudice fra le genti
e arbitro fra molti popoli.
Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione,
non impareranno più l’arte della guerra.
Casa di Giacobbe, venite,
camminiamo nella luce del Signore.

Cammino di pace, laboratorio di un’umanità nuova
L’oracolo di Isaia funziona come una finestra spalancata sul futuro secondo Dio; non un futuro evasivo, ma una traiettoria che attraversa il presente e lo redime dall’interno. Il profeta vede i popoli salire verso il monte del Signore come chi segue una corrente di desiderio, attratto da una luce che non s’impone ma convince.
Il monte Sion di Gerusalemme, sul quale sorgeva il tempio del Signore, è il luogo del raduno di tutte le genti provenienti da ogni parte della terra attorno alla Parola di Dio. Il monte è lo spazio in cui l’umanità impara finalmente a non vivere da avversaria. Il monte del Signore non è il rifugio dei disillusi, è il laboratorio in cui lo Spirito ricostruisce un’umanità capace di incontrarsi senza temere di perdersi. Chi sale sul monte non è perfetto, è semplicemente qualcuno che non vuole più rimanere prigioniero dei meccanismi della violenza. Per questo si lascia ammaestrare.
Il desiderio di conoscere la verità, che alberga nel cuore di chi non si accontenta di una vita mediocre, spinge a mettersi in cammino per cercarla. Colui che non si rassegna davanti all’ingiustizia sente che deve lottare per la pace con le armi della giustizia che solo Dio può fornire. La Parola di Dio non ha semplicemente un valore informativo ma formativo e performativo perché trasforma il cuore di chi cerca la Sapienza e si mette in ascolto di essa. La forza della Parola si misura sulla capacità di trasformare i gesti. La sapienza divina non si limita a dire cosa è vero: genera uomini e donne capaci di vivere in modo vero. Così le spade — metallo temprato per ferire — diventano aratri, strumenti che incidono la terra per generare vita. È quasi un ribaltamento del DNA della storia: dall’istinto di difendersi al coraggio di coltivare.
La novità traspare dalle opere che, non ispirandosi alla bramosia del potere, traducono in gesti fecondi di bene l’umile obbedienza alla volontà di Dio. La scena si chiude con un invito rivolto a «casa di Giacobbe». Anche il popolo che ascolta il profeta è chiamato a camminare alla luce del Signore, perché non basta contemplare la visione; bisogna entrarci. La pace non si decreta, si pratica. È un’arte, una responsabilità, un modo concreto di abitare la storia anche quando la storia sembra remare contro.
L’assemblea che si riunisce, accogliendo l’invito del Signore, non fugge dalla realtà ma nell’incontro comunitario con la Parola trae forza e creatività per farla lievitare con la sapienza che sgorga dalla Parola per essere nella storia in cui vive e nel mondo che abita germe di rinnovamento, seme di gioia e di pace, luce profetica del regno di Dio.

Salmo responsoriale Sal 121
Andiamo con gioia incontro al Signore.

Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!

È là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge d’Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide.

Chiedete pace per Gerusalemme:
vivano sicuri quelli che ti amano;
sia pace nelle tue mura,
sicurezza nei tuoi palazzi.

Per i miei fratelli e i miei amici
io dirò: «Su di te sia pace!».
Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene.

Il Sal 121 è un canto delle ascensioni che intonavano i pellegrini giunti alle porte di Gerusalemme. Si avverte tra le righe l’entusiasmo di coloro che pregustano la gioia di essere nella Città santa dove abita il Signore. La presenza di Dio è garanzia di forza e coesione. Le fazioni, che alimentano dissidi e incomprensioni, rendono il cammino della vita più lento e faticoso. Sollevando lo sguardo dalle miserie umane lo si dirige verso la città del cielo la cui bella armonia suscita nel cuore di chi la contempla con gli occhi della fede il desiderio di abitarla e appartenerle.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani Rm 13,11-14
La nostra salvezza è più vicina.

Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.
La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.
Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.

Svegliarsi all’alba di Cristo
San Paolo, dopo aver trattato il tema della giustificazione, sottolineando il fatto che la santificazione è opera di Dio per mezzo dello Spirito Santo effuso da Gesù crocifisso e risorto, traccia la linea da seguire affinché la vita nuova ricevuta dal Signore si traduca in vita santa. Per ogni battezzato l’amore di Dio diventa regola di vita che orienta le sue scelte in ogni ambito dell’esistenza. In tal modo qualsiasi situazione, anche dolorosa, è il tempo propizio per amare. Il discernimento cristiano non deve ridursi ad analisi e giudizio ma si effettua mettendosi in ascolto di quello che Dio sta dicendo alla propria vita con animo disposto alla realizzazione della sua volontà.
La voce paolina in questo brano sembra scuotere la comunità come una mano gentile che apre le imposte all’alba. La scena è semplice: la notte sta cedendo, il cielo si schiarisce, e chi è rimasto a dormire rischia di perdere il primo bagliore del giorno. L’Apostolo non intende spaventare, quanto risvegliare. Parla come chi ha contemplato da vicino la forza trasformatrice della grazia e desidera che nessuno rimanga intrappolato in un crepuscolo che non appartiene più ai figli della luce.
Il suo invito — “svegliatevi dal sonno” — è un’immagine vigorosa. Il sonno non è solo inattività morale, ma torpore spirituale, quella patina interiore che si posa quando l’amore si affievolisce e la fede si trascina per inerzia. Paolo vede la tentazione di vivere “di notte” anche dopo il battesimo: scegliere strade facili, rifugiarsi in abitudini poco limpide, cedendo a dinamiche che coinvolgono corpo, relazioni, parole e pensieri. Tutto ciò che produce confusione, chiusura, aggressività, è per lui sintomo di un cuore che non ha ancora riconosciuto che l’alba è già sorta.
La svolta paolina è tutta nella fiducia: “la nostra salvezza è più vicina”. Non si tratta di un conto alla rovescia, ma di una percezione crescente della presenza del Risorto nella vita. Il cristiano non avanza verso un futuro incerto; cammina verso un incontro già iniziato. Per questo Paolo può dire che il giorno è vicino: la luce non è un’idea, ma una Presenza che continuamente si avvicina.
Da qui scaturisce l’immagine splendida delle “armi della luce”, che non sono strumenti per combattere contro altri, ma per proteggere la propria dignità di figli. Sono le disposizioni del cuore modellate dallo Spirito: sincerità, mitezza, limpidezza di comportamento, capacità di ricominciare dopo ogni caduta. Indossarle significa vivere come se Dio fosse già visibilmente nel mondo, perché in Cristo lo è davvero.
Il culmine è il comando più affettuoso della Lettera ai Romani: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo”. Non è un accessorio spirituale, è una trasformazione progressiva. Rivestirsi di Cristo significa interiorizzare il suo modo di guardare gli altri, scegliere come scelgono i cuori liberi, lasciarsi condurre dallo Spirito fino a diventare, poco a poco, trasparenza del suo amore. La vita cristiana non è un insieme di proibizioni, ma l’espansione di una bellezza nuova che cresce in chi si lascia plasmare.
In questa prospettiva il discernimento, che spesso immaginiamo complesso, torna semplice: non è un esercizio di analisi fino allo scrupolo, ma l’arte di riconoscere ciò che favorisce la vita, ciò che dilata il cuore, ciò che fa respirare lo Spirito. È ascoltare Dio non in astratto, ma dentro il tessuto delle giornate, nelle relazioni ferite e in quelle luminose, nelle scelte piccole che costruiscono un orientamento grande.
Il testo di Paolo non chiede perfezione immediata: chiede vigilanza, desiderio, disponibilità. Chiede di accorgersi che il giorno nuovo è già iniziato e che la vita cristiana non è un dovere da compiere, ma una luce che chiede spazio. Vivere “come in pieno giorno” è l’opera di chi sa che Dio sta già operando in lui e, con umile fiducia, permette alla grazia di fare ciò che da sola può compiere: trasformare il cuore perché l’amore diventi la forma concreta di ogni scelta.
La meditazione su questo brano diventa allora un esercizio di onestà interiore: quali zone d’ombra resistono ancora alla luce? Quali abitudini appesantiscono il respiro dell’anima? Quali voci interiori domandano di essere risvegliate? L’Apostolo offre una promessa più che un rimprovero: il Signore è vicino, il suo giorno avanza, e dentro la realtà di ciascuno qualcosa sta già diventando trasparente come un mattino.

Dal Vangelo secondo Matteo (24,37-44)
Vegliate, per essere pronti al suo arrivo.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Lectio
Il brano del vangelo è tratto dal quinto e ultimo discorso della narrazione di Matteo che occupa i capp. 24-25. Attraverso il linguaggio apocalittico si trattano gli argomenti delle «cose ultime», sicché è chiamato «discorso escatologico». Il primo evangelista colloca questo discorso sul monte degli Ulivi creando un collegamento con quello detto «della Montagna» (Mt 5-7) e l’invio missionario del Risorto (Mt 28, 16-20). L’insegnamento di Gesù è introdotto dal racconto di un episodio che culmina con la domanda dei discepoli. Essi chiedono al Maestro spiegazioni sull’annuncio della fine del tempio che egli aveva profetizzato. I discepoli colgono nelle parole di Gesù l’indicazione di un evento che avrebbe segnato la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova inaugurata con l’avvento del Messia. La fine del mondo (Mt 24,3) era considerata non in termini catastrofici ma rivelativi della giustizia di Dio. I discepoli di Gesù colgono nelle sue parole l’annuncio dell’avvento del regno di Dio e chiedono di sapere quali sarebbero stati i segnali premonitori. Gesù, con linguaggio apocalittico (rivelativo) già utilizzato dai profeti d’Israele, parla dei «dolori del parto» (Mt 24, 8) per indicare che la tribolazione subita è parte di un processo di cambiamento e di compimento. La luce della Pasqua renderà intelligibile il discorso di Gesù ma ancor di più la condizione di sofferenza patita dai primi cristiani perseguitati. Il contesto nel quale la Chiesa rilegge le parole del suo Maestro è caratterizzato da una profonda crisi dovuta all’esperienza del dolore che genera conflittualità all’interno della comunità, ma al contempo rivela su quali basi è fondata la fede dei discepoli. La prova a cui è sottoposta la comunità giudeo-cristiana suscita smarrimento perché è stretta tra l’accusa di essere “fuori dal mondo” e l’istinto di fuggire dal mondo in cui si trova, quasi rinnegando le proprie origini e nascondendo la propria identità. Un desiderio di rivalsa e di riscatto genera l’attesa di un Messia giustiziere, più che giusto. Il linguaggio apocalittico, fatto di immagini dai colori molto accesi, evoca il giudizio di Dio come un capovolgimento della realtà. Crolla tutto ciò che appariva, al giudizio di tutti, come indistruttibile – il tempio ne è un esempio – affinché si manifesti la gloria di Dio in tutta la sua potenza. La Pasqua, morte e risurrezione di Gesù, è il segno del cambiamento e il tempo del compimento.
La Pasqua non è semplicemente la conclusione della storia che lo riguarda, ma Gesù la presenta come il fine della sua vita e di quella dei suoi discepoli. Tutta l’esistenza terrena di Gesù è sotto il segno della Pasqua che rappresenta l’orizzonte imprescindibile per comprenderne il valore salvifico. Senza questa prospettiva pasquale non si riesce a cogliere il significato dell’esistenza attraversata da profonde crisi e la loro portata nel progetto di Dio. Le parole di Gesù più che un avvertimento minaccioso suonano come un annuncio che informa per preparare a vivere il doloroso cambiamento e per sperimentare il gioioso compimento (beatitudine). In tutto questo Dio non è semplicemente il regista che dirige gli attori dall’esterno del set, ma è coprotagonista della storia insieme agli uomini. La relazione con Lui diventa fondamentale nella salvezza, ovvero nella riuscita della vita soprattutto quando si attraversano le prove. Esse rivelano la qualità del rapporto con Dio che non può ridursi a verbalismo vuoto di sentimento e sterile di opere buone. L’esempio di Noè è portato perché chi ascolta Gesù (il Crocifisso risorto che parla alla Chiesa nell’assemblea liturgica riunita anche nei momenti di profonda crisi) possa leggere la sua storia riconoscendo il valore della Parola di Dio che va messa in pratica e non semplicemente conosciuta. Quelli che vivevano insieme a Noè conducevano una vita normale ma incapsulati nel loro mondo nel quale il cambiamento non era coniugato al compimento. Vivere l’oggi senza il domani di Dio significa scivolare verso il buco nero della morte che tutto divora. Il messaggio di Gesù aiuta a vivere l’oggi alla luce del domani di Dio, il “giorno terzo”, che è la vita risorta. La Pasqua è la «venuta del Figlio dell’uomo». Il termine greco (parousia) tradotto con «venuta» letteralmente significa «presenza» e nel linguaggio greco-romano indicava la visita ispettiva ufficiale e solenne del re o del generale. Nel contesto della letteratura profetica il termine «parousia» evoca il giudizio finale di Dio che si erge quale giudice universale per separare i santi dagli empi. La separazione è evidenziata nella duplice immagine della coppia di uomini che lavorano nei campi e di donne che macinano alla mola. Cosa determina questa diversità di sorte? Essi non si distinguono tra loro per le opere ma per le intenzioni. I santi non si distinguono dagli empi per il numero di opere buone che compiono ma dal fatto che esse sono fatte in obbedienza a Dio oppure a prescindere dalla sua Parola. In altri termini, le opere buone possono essere il mezzo per autorealizzarsi o il modo con il quale mettere in pratica la volontà di Dio collaborando con Lui alla storia della salvezza. Noè si salva e salva anche chi accoglie la sua proposta, che agli occhi degli altri appariva assurda, perché, conoscendo l’approssimarsi del diluvio, segue il comandamento ricevuto da Dio. Il diluvio non è una punizione di Dio ma rappresenta le crisi della vita. Esse le appartengono e sono lo strumento del suo cambiamento: in meglio se vissuto come occasione di rinnovamento, in peggio se affrontate con superficialità e arroganza. La parabola del padrone che custodisce la sua casa dalle intrusioni del ladro spiega bene quali sono i sentimenti che devono albergare nel cuore di chi sa che deve affrontare delle prove dolorose ma ne ignora il tempo e le modalità. Le tribolazioni sono passaggi necessari, benché dolorosi, affinché il cambiamento diventi compimento. È necessario prepararsi all’incontro con il Signore che viene vigilando su sé stessi con una condotta di vita sobria. Vegliare significa lottare contro il sonno della paura che induce a regredire ripiegandosi su sé stessi e i propri interessi. La lotta contro la paura si ingaggia con le armi della Parola di Dio che illumina con la speranza gli enigmi del presente e permette di tenere desta l’attenzione verso Dio e i fratelli.

Meditatio
Nel tempo liturgico dell’Avvento risuona l’annuncio della «parousia», ossia della presenza di Dio nella storia, e l’esortazione all’attesa, intesa in senso dinamico, quale tensione verso Dio che viene a salvarci. Con un linguaggio volutamente provocatorio Gesù vuole attirare l’attenzione su ciò che veramente conta nella vita distogliendola dall’esclusiva cura degli interessi personali. Nella pagina evangelica della domenica che inaugura un nuovo anno liturgico, Gesù parla della sua venuta. La celebrazione del Natale, con cui culminerà il tempo dell’Avvento, ci ricorda che in Gesù bambino si manifesta la bontà di Dio che si fa uno di noi in tutto. Infatti, canteremo con Sant’Alfonso Maria De Liguori: «Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo». Nel Libro dell’Apocalisse Gesù, crocifisso e risorto si presenta come «Colui che è, che era e che viene». Dio viene in mezzo a noi per camminare insieme a noi, abitare la nostra casa, essere partecipe e condividere le nostre gioie e i nostri dolori, fatiche e successi. Egli viene per accompagnarci verso la Casa di Padre e fare festa con Lui. La presenza di Dio non è invasiva ma discreta e propositiva. Egli viene, bussa alla porta del cuore, chiama per nome, si appella alla coscienza e nel silenzio resta in attesa della nostra risposta.
Il richiamo ai giorni di Noè e il racconto che gli evangelisti fanno della nascita di Gesù, mettono in evidenza il clima nel quale Dio viene in mezzo a noi. La freddezza, richiamata nel canto popolare di Natale, si riscontra nelle nostre relazioni spesso vissute in maniera meccanica perché sganciate dalla fede e dall’attesa dell’incontro con Dio. «I giorni di Noè» sono anche i nostri nei quali abbiamo trasformato la prima benedizione di Dio all’uomo, «crescete e moltiplicatevi», nella maledizione dell’avidità e dell’indifferenza. I nostri giorni sono una corsa contro il tempo in cui l’affanno dell’attivismo ruba lo spazio al respiro silenzioso dell’ascolto e contemplazione. Più che seguire la voce dello Spirito rincorriamo i sogni propri e le attese (o pretese) altrui. La parola d’ordine è ottenere tutto e subito. Dal vocabolario di uso quotidiano sono scomparse le parole quali riflessione, pazienza, discernimento, ponderazione, prudenza. La compulsività con la quale affrontiamo la vita ci dà l’impressione di essere in una notte buia senza punti di riferimento per orientare le nostre scelte. Presi dalla paura dell’incognito afferriamo qualsiasi cosa ci venga sottomano con l’illusione che sia un punto d’appoggio sicuro.
Gesù, venuto e presente in mezzo a noi, chiede di vigilare, cioè di tenere gli occhi aperti per riconoscerlo e amarlo. Il desiderio di Lui ci aiuta a tenere desta l’attenzione contro il ladro, che vuole rubarci la speranza, ma anche a trasformare l’ansia in trepidazione che si traduce in sollecitudine e cura premurosa ai più piccoli.
L’attesa cristiana non è statica e rassegnata aspettativa della realizzazione del fato. Il tempo dell’Avvento ci forma ad attendere con cuore aperto per accogliere il Signore che viene. L’attesa è risposta al suo invito ad abitare con Lui, sul monte. Ci chiama a salire lasciando la valle delle nostre beghe di bassa lega, trasformando le armi con le quali ci facciamo guerra in strumenti con i quali coltivare le relazioni che già abitiamo.
Attendere è avere uno sguardo attento per cogliere tutte le possibilità d’incontro, di dialogo, senza fuggire i conflitti, ma affrontandoli in maniera matura e costruttiva. Essi sono opportunità nelle quali prendere coscienza delle differenze e decidere se trasformarle in spazio d’incontro e reciproco dono oppure usarle come alibi per marcare le distanze e creare divisioni.
L’attesa non è l’insieme delle nostre attese da soddisfare, ma è la faticosa ricerca del senso degli eventi. La vita, come la terra, la si possiede veramente non quando la si difende con le armi, ma quando la si coltiva per renderla feconda di frutti.
L’attesa cristiana è preparazione all’incontro con il Liberatore che non viene per mettersi dalla parte di uno contro qualcun altro, ma per renderci veramente liberi costruttori della civiltà di pace.
L’attesa è già incontro con il Signore che viene nel sole che sorge inaugurando un nuovo giorno, nella pioggia che bagna la terra perché faccia germogliare, fiorire e fruttificare il seme custodito in essa. Dietro ogni sguardo, negli occhi di chi si affaccia alla vita e di chi si congeda da essa, nelle membra doloranti di chi soffre e di quelle di chi si unisce per amore, in ogni persona che lotta per la giustizia e s’impegna con lo studio e il lavoro a costruire un futuro più bello per sé e per gli altri, Dio viene, Dio c’è. Dove c’è Carità lì c’è Dio che mi attende!

Per leggere la vita alla luce della Parola

Quali “giorni di Noè” abitano oggi la mia vita?
In quali momenti vivo come se Dio fosse assente, preso dalla fretta, dall’abitudine o dalla paura di cambiare?

Quale luce del Signore sta già sorgendo nei miei passi?
Quale parola, incontro o situazione recente mi invita a salire “sul monte” per imparare vie di pace che trasformano le mie armi in strumenti di vita?

Che cosa, nella mia storia, chiede di essere vigilato e custodito?
Quale parte del mio cuore rischia di addormentarsi — nella rassegnazione, nell’indifferenza o nella stanchezza — e attende invece di essere risvegliata dal desiderio del Signore che viene?

Oratio
Tu, Signore che sali con noi sul monte,
accendi nei nostri passi il desiderio della tua luce.
Strappa via dal cuore il sonno che appanna lo sguardo
e sciogli la paura che ci trattiene a valle.
Rendici pellegrini della pace che nasce dalla tua Parola.

Veglia sulle nostre notti, Sentinella fedele,
quando la nebbia dell’abitudine avvolge i pensieri.
Resta accanto a noi finché l’alba non dispiegherà il suo manto
e ogni ombra diventerà occasione di affidamento.
Fa’ che il nostro cuore non perda il passo della tua venuta.

Svegliaci dall’indifferenza che indurisce il respiro
e dalla fretta che ci ruba la capacità di amare.
Rinnova in noi la gioia del bene possibile,
il coraggio di ricominciare, la mitezza che guarisce.
Rendici profumo di carità nel mondo che attende vita.

Vieni Signore, rialzaci dalle nostre cadute
e accompagna la nostra mano verso quella dei fratelli.
Apri in noi parole credibili, limpide come il giorno.
Fa’ brillare negli occhi la tua misericordia che accoglie.
Perché ogni uomo smarrito ritrovi sentieri di casa. Amen.