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GIOVEDI SANTO (MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE) – Lectio divina

Es 12,1-8.11-14   Sal 115   1Cor 11,23-26  

O Dio, che ci hai riuniti per celebrare la santa Cena

nella quale il tuo unico Figlio,

prima di consegnarsi alla morte,

affidò alla Chiesa il nuovo ed eterno sacrificio,

convito nuziale del suo amore,

fa’ che dalla partecipazione a così grande mistero

attingiamo pienezza di carità e di vita.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.


Dal libro dell’Èsodo Es 12,1-8.11-14

Prescrizioni per la cena pasquale.

In quei giorni, il Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d’Egitto:

«Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne.

Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con àzzimi e con erbe amare. Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore!

In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”».

Il rito della Pasqua, preparazione e memoriale

Il capitolo 12 dell’Esodo dedica alla Pasqua due parti i vv. 1-28 e 41-50. La celebrazione di un rito ciclico, proprio dei pastori, che gli ebrei del tempo dei patriarchi celebravano come gli altri popoli vicini dediti alla pastorizia, in primavera, per chiedere a Dio la benedizione e la fecondità del gregge, diventa il rito «memoriale» dell’intervento di Dio nella storia.

Dio fornisce le indicazioni per il rito della prima celebrazione liturgica della pasqua. Non ci sono luoghi sacri in cui riunirsi ma la liturgia, che consiste in un pasto sacro, avviene nelle case dove si riunisce la famiglia o due nuclei familiari insieme. Il centro del rito è l’agnello o il capretto. La fase preparatoria prevede la scelta accurata dell’agnello e la sua immolazione a cui segue il momento celebrativo in cui si segna con il sangue dell’animale sacrificato l’ingresso della casa e la consumazione della sua carne, dopo che è stata cotta al fuoco. La cena pasquale è mangiata similmente a come facevano i pastori prima di intraprendere la transumanza con le loro greggi. Il rito pasquale è a sua volta preparatorio all’azione di Dio che, risparmiando i primogeniti d’Israele fa verità sul fatto che gli dei fasulli perché portano morte mentre Lui è il Signore della vita. Il termine Pasqua (in ebraico pesach) viene dal “passare oltre” di Dio che protegge dalla morte quelle case segnate dal sangue dell’agnello. Il sangue, simbolo della vita, vuole indicare che i membri di quella famiglia appartengono a Dio ed essendo a Lui consacrati, non temono la morte.

Dunque, attraverso il rito è anticipata nella fede l’opera del Signore, che libera il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto, che sta manifestarsi. La Pasqua è un evento originale, perché avviene una volta per tutte, ma è anche originante perché da essa scaturisce il dono della libertà. Essa è per tutti gli uomini di ogni luogo e tempo. Ad essi viene esplicitamente dato il comando di celebrarne il memoriale: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14). Le generazioni che cambiano si tramandano il comando e l’esecuzione del rito che attualizza l’evento, realizzato una volta per tutte. Attraverso il memoriale le generazioni successive a quella che ha vissuto storicamente l’evento possono godere dell’azione liberante di Dio.

Il memoriale diviene esso stesso, nel tempo intermedio tra l’evento storico e l’eternità, preparazione e attesa della pasqua ultima e definitiva del giorno senza tramonto.

Salmo responsoriale Sal 115

Il tuo calice, Signore, è dono di salvezza.

Che cosa renderò al Signore,

per tutti i benefici che mi ha fatto?

Alzerò il calice della salvezza

e invocherò il nome del Signore.

Agli occhi del Signore è preziosa

la morte dei suoi fedeli.

Io sono tuo servo, figlio della tua schiava:

tu hai spezzato le mie catene.

A te offrirò un sacrificio di ringraziamento

e invocherò il nome del Signore.

Adempirò i miei voti al Signore

davanti a tutto il suo popolo.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1Cor 11,23-26

Ogni volta che mangiate questo pane, annunciate la morte del Signore.

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».

Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».

Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Annunciare con la vita fraterna la potenza della morte di Gesù

L’apostolo si rivolge ai cristiani di Corinto che si riuniscono insieme per «mangiare la cena del Signore» (v. 20). Questo avviene in una delle case che raccoglie la Chiesa di Dio. La dimora privata nella quale si consuma abitualmente il proprio pasto quotidiano diviene uno spazio sacro quando si celebra la «cena del Signore». Quello che gli ebrei celebrano una volta all’anno, i cristiani invece lo celebrano settimanalmente. La cena pasquale è chiamata la cena del Signore perché Gesù è il protagonista. Paolo ricorda ai Corinti il significato dell’eucaristia (termine utilizzato dalla Didaché) fungendo da padre di famiglia che risponde alla domanda dei figli sul significato del rito pasquale, come era usanza nella cena della Pasqua ebraica. La tradizione che Paolo trasmette è in comune con quella della Chiesa per la quale scrive l’evangelista Luca. Nell’ultima cena Gesù spezzando il pane e distribuendo il vino rivela il senso della sua Pasqua che sta per compiersi. Se i fatti metteranno in evidenza l’ingiustizia perpetrata nei suoi confronti per mano degli uomini, Gesù fornisce una chiave di lettura che invece rivela una verità più grande: nella morte egli dona la sua vita per realizzare la nuova ed eterna alleanza con Dio. Paolo riporta le parole di Gesù, quelle che gli apostoli hanno ascoltato e che hanno assunto come chiave ermeneutica per comprendere la verità della morte del loro Maestro. Una volta risorto, lo hanno incontrato vivo. Cristo, donando loro lo Spirito, ha permesso di sperimentare la potenza della salvezza e di credere in Lui. Attraverso il sacrificio di Gesù, anticipato nel segno del pane spezzato e del calice del vino condiviso, Dio opera la conversione del cuore dell’uomo perché assimili la logica dell’amore oblativo e lo viva nelle relazioni di cura e di aiuto con gli altri. Il rito inaugurato da Gesù nell’ultima cena rivela il dono della vita divina offerta nella sua morte in croce. Il rito della Chiesa di Dio non è una rievocazione storica con la quale si va indietro con la memoria ad un evento passato; è memoria di Gesù che, nell’oggi di ogni eucaristia, dona la sua vita per il perdono del peccato di tutti gli uomini affinché possano annunciare con la propria vita la potenza dell’amore di Dio che salva dalla morte.

+ Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 13,1-15

Li amò sino alla fine.

Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.

Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.

Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».

Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».

LECTIO

«Prima della festa di Pasqua»

La Pasqua cristiana non può essere compresa, ma soprattutto vissuta, senza tener presente l’evento della Pasqua ebraica il cui momento iniziale è narrato nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo. Lì si parla della preparazione dell’agnello, la cui carne deve essere consumata in famiglia e il cui sangue deve essere posto sugli stipiti delle porte. Si danno anche indicazioni circa la cena in casa nella notte in cui sarebbe passato l’angelo della morte destinato ai primogeniti egiziani e vigilia del passaggio del Mar Rosso.

Il pasto precede il cammino dell’esodo ed è per questo che ci si sofferma ad indicare anche il vestiario, tipico di chi sta per intraprendere un lungo viaggio. È il pasto vespertino del viandante che non inaugura il tempo del riposo, ma quello del cammino, attraverso la notte, verso la luce.

Nella seconda lettura Paolo la chiama «la notte in cui (Gesù) veniva tradito».

«(Gesù) sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre… sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava».

Giovanni, introducendo gli eventi della Pasqua accenna alla consapevolezza di Gesù di essere venuto dal Padre e di ritornare a Lui. Si accenna cioè ad un cammino con due passaggi, dal Padre verso questo mondo e il ritorno da questo mondo al Padre. In questi due passaggi sono riassunti i capisaldi della nostra fede: l’incarnazione di Dio e la sua opera di salvezza. Gesù, diventando uomo è passato dal Padre al mondo, inviato da Lui. Nell’ora della Passione Gesù fa ritorno al Padre per aprire anche a noi la via al Cielo e diventare noi figli di Dio.

«… avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».

Il cammino dell’Esodo di Gesù parte da Dio e a Dio ritorna affinché l’uomo, «nato dalla carne» (Gv 3,6), possa ri-nascere dallo Spirito. È questa, dunque, la Pasqua del cristiano: passare dall’essere uomo terrestre, destinato alla terra, ad essere uomo celeste, come il Figlio di Dio, e possedere la vita eterna. Il cammino di Gesù è un cammino di amore. Parlando a Nicodemo Gesù rivela: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito … Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui» (Gv 3,16.17). Fino a che punto Gesù ci ha amato? Dove vuole condurci il suo amore per noi? Fino alla fine, cioè fino al raggiungimento della nostra salvezza. La salvezza è il compimento del progetto per cui Gesù è stato dato agli uomini dal Padre e per il quale il Padre ha dato come suo dono nelle mani di Gesù tutti gli uomini (Gv 13,3; 17,9.10).

Dopo questo lungo preambolo l’evangelista descrive i gesti silenziosi di Gesù. «Si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita». Il significato simbolico di questi gesti è rivelato dal testo di un antico inno che s. Paolo recepisce dalla chiesa e che fa suo proponendolo ai Filippesi. In questo inno è riassunto tutto il Vangelo.

«Cristo Gesù … pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (Fil 2, 5-6). Gesù durante la cena occupava il posto del capo famiglia, il primo posto. Egli dunque, alzandosi da tavola, lascia il suo posto. In questo gesto è evocata la consapevolezza di Gesù di essere figlio di Dio, ma anche la volontà di non tenere gelosamente per sé questo privilegio, ma volle che fosse condiviso con gli uomini. Lasciare il proprio posto significa rinunciare a tenere solo per sé un bene così grande o a conservare ad ogni costo un vantaggio. L’amore del Padre, la sua vita, non poteva trattenerla solo per sé.

«Svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2, 7), «Gesù depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita». Dio scende dal Cielo e diviene uomo assumendo la nostra condizione caratterizzata dalla precarietà, dalla sofferenza e dalla morte. L’uomo è di una bellezza straordinaria, ma anche soggetto alla fragilità. Il salmista canta la grandezza dell’uomo «fatto poco meno di un dio», ma al tempo stesso «la sua vita è come l’erba che spunta al mattino e avvizzisce la sera». Ha il grande dono dell’intelligenza e della sapienza per trasformare il deserto il un florido giardino, ma anche la possibilità di usare male la sua libertà riducendo in macerie la casa in cui abita. Il suo corpo è un organismo armoniosamente composto, ma è un essere che per vivere non basta a sé stesso e i bisogni gli ricordano che nessuno si salva da solo. Gesù, deponendo le vesti, rinuncia anche alla proposta di salvezza offertagli da Satana che punta tutto sul consenso popolare. Gesù accetta di incamminarsi sulla via che il Padre gli indica, quella della croce, lì dove si unirà totalmente all’uomo, fino all’ultimo uomo, quello giudicato e condannato ingiustamente.

«Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8), «Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto». Piegando le sue ginocchia davanti ai discepoli Gesù fa cadere tutte le false immagini che essi si erano fatti di Lui. Andrea, uno dei primi discepoli di Gesù, lo aveva da subito riconosciuto come il Cristo e Filippo, paesano suo e di Simon Pietro, parlando con Natanaele, afferma che finalmente hanno trovato colui che era stato promesso dai Profeti. Lo stesso Natanaele, incontrando Gesù lo chiama Figlio di Dio, Re d’Israele. A questi altisonanti titoli Gesù replica: «vedrai cose più grandi di queste» (cf. Gv 1, 51). Mai avrebbero potuto immaginare di vedere Gesù piegato ai loro piedi e ancora di più innalzato sulla croce. L’amore agli uomini fino alla fine è un atto di obbedienza a Dio, non semplicemente un atto eroico che nasce dalla propria volontà. Il versare l’acqua nel catino è il simbolo del dono che Gesù fa di sé sulla croce, «versando sangue e acqua». I piedi, estremità più bassa del corpo, sono il simbolo dell’umanità, soprattutto quella che soffre per il fatto di camminare su vie sbagliate, di cui Gesù si prende cura. La lettera agli Ebrei (2,16) parlando di Gesù, quale Figlio di Dio, dice: «Non degli angeli si prende cura, ma della stirpe di Abramo si prende cura». Con quel gesto Gesù dice ai suoi discepoli: «Io sono vostro fratello». Perciò conclude l’autore della Lettera agli Ebrei: «Proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,18). La prova di cui si parla è l’esperienza concreta che Gesù fa fino in fondo della sofferenza dell’uomo. L’umiliazione è l’esperienza più intensa e profonda della nostra umanità. Il volto di Gesù non potrà essere visto se non nell’acqua in cui sono immersi i piedi degli uomini. In quell’acqua in cui sono depositati i peccati degli uomini si riflette il volto di Gesù sacerdote misericordioso. I panni pontificali dei sommi sacerdoti sono stati sostituiti dall’asciugatoio con il quale Gesù asciuga i piedi e conforta i suoi discepoli.

«Signore, tu lavi i piedi a me? … Tu non mi laverai i piedi in eterno!».

Lo scandalo che suscita quel gesto è impresso nelle parole di Simon Pietro che cerca di fermare le mani di Gesù pronte a prendere anche i suoi piedi e immergerli nell’acqua. Troppo grande è l’umiliazione, da non crederci! Gesù non può arrivare a tanto! Pietro proietta su Gesù la sua idea di salvatore. Il Messia, forte e potente, è invincibile, ha la soluzione pronta per ogni problema, non può mostrarsi debole. Questa è la tentazione di satana che induce a sognare la liberazione come un atto di forza, magari anche con le armi, per mettere a tacere e sottomette i nemici. Gesù, sottomesso ai piedi di Pietro, smonta pezzo per pezzo le speranze e le aspettative dell’apostolo. Pietro si ribella, non capisce e non vuol sentire ragione, si vergogna. Pietro, che sogna, come tutti gli altri, un riscatto sociale e economico e il trionfo della vera fede, non accetta la via della croce. Gesù replica che solo quella, e in compagnia sua, potrà condurlo al riscatto.

«Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono».

«Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome…» (Fil 2, 9). Dopo l’ora dell’umiliazione e della confusione dei discepoli, giunge quella della risurrezione. L’immagine di riprendere le vesti, precedentemente deposte, è spiegata dalle parole stesse di Gesù quando parla di sé come il Bel Pastore che dà la sua vita per le pecore e aggiunge: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo» (Gv 10,17). Seguendo l’inno dei Filippesi comprendiamo che le vesti sono la vita che Gesù, in obbedienza al Padre dona sulla croce per gli uomini. Per questo il Padre, modello del Pastore a cui Gesù guarda, non lo abbandona nella morte, ma lo solleva alla gloria più alta. Chi parla è dunque il Cristo risorto, Il Maestro e Signore, che è stato liberato dalla morte e ora siede alla destra del Padre. Gesù, si mette a sedere perché offre un insegnamento importante, la luce per comprendere e riconoscere l’amore di Dio.

«… Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».

«… perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!» a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 10-11). Il Crocifisso Risorto in ogni eucaristia siede in mezzo ai suoi discepoli per i quali ha versato il suo sangue e con i quali ancora partecipa alle loro sofferenze. Sono esse, infatti, che destabilizzano, soprattutto il dolore innocente. Una malattia grave, una morte improvvisa, un’accusa infamante che porta a perdere molto o tutto quello che si ha, una pandemia, come quella che stiamo vivendo, con conseguenze disastrose sulla tenuta delle nostre famiglie, questi sono esempi di croce nella quale si stenta a capire quale sia il senso, dove la situazione ci sta portando e dove è Dio in questi frangenti. Il Risorto ci indica la verità: Lui rimane sempre quel fratello che sulla croce si è fatto prossimo ad ogni uomo, soprattutto al povero, a colui che piange per la morte che si avvicina o che gli ha portato via un affetto, a colui che subisce ingiustizie e a colui che soffre a causa anche delle sue scelte sbagliate. Dio si piega ancora sui nostri piedi per prendersi cura di noi e non ci abbandona. Tuttavia, il Crocifisso Risorto ci insegna che nella prova, soprattutto quella che sembra schiacciarci e annullarci, dobbiamo piegare le ginocchia, per pregare e per servire i fratelli. L’eucaristia allora non sarà semplicemente un rito che si ripete con gesti e parole che a volte vengono fraintesi e di cui spesso non si comprende il significato. Nell’eucaristia guardiamo Gesù e ascoltiamo la sua parola: vi ho dato l’esempio. San Pietro, pecorella smarrita del gregge di Gesù davanti alla prova della croce e poi recuperata dal Buon Pastore, diventato lui stesso pastore della Chiesa, memore della prova e dell’esperienza della misericordia di Dio, esorta coloro che portano la loro croce innocentemente: «… Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti,

maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime» (1 Pt 2, 19-25).

MEDITATIO

Il servizio per amore genera la libertà

L’evangelista Giovanni ci permette di entrare nel cuore di Gesù e ci rivela i suoi pensieri. È consapevole che il suo cammino nel mondo è giunto al suo culmine perché è arrivata l’ora di attraversare la morte per passare da questo mondo al Padre. Dio lo ha inviato nel mondo per raccogliere in unità tutti i figli dispersi e introdurli nella terra promessa della vita eterna. Quello di Gesù non è stato un passaggio come quello di una stella cometa o di un aereo del quale rimane una scia che col tempo svanisce nel nulla. Gesù è l’amore di Dio che si è rivelato agli uomini attraverso segni e prodigi il cui fine è quello di farci innamorare di lui e desiderare di diventargli figli e abitare la sua casa. Amare fino alla fine ha significato per Gesù prenderci per mano per accompagnarci attraverso la Pasqua nella casa del Padre. È questa la nostra speranza, la meta del nostro cammino pasquale.

La nostra vita è anche cammino di fede iniziato col battesimo che troverà il suo culmine nel banchetto nuziale del cielo di cui l’eucaristia è anticipazione. La fede che rimane sul piano delle idee e dei concetti sentiti dire o dell’ammirazione dei miracoli, ma che non si traduce in esperienza personale con Gesù, non è così forte da farci sostenere il peso del viaggio della vita. Giuda aveva il cuore debole e quindi più vulnerabile agli attracchi di Satana il quale ne aveva preso il possesso determinando la scelta di tradire Gesù. Anche lui ha assistito ai miracoli, e si è fatto lavare i piedi ma ha preso tutto superficialmente senza interrogarsi sul senso degli eventi per la propria vita. Anche gli altri discepoli non comprendono. Ma questo è normale perché l’amore di Dio non è un teorema matematico da dimostrare. Capire è cosa diversa dal conoscere. Chi vuole conoscere Gesù giunge anche a comprendere il suo amore perché il desiderio di conoscerlo sempre più profondamente lo porta a sentirlo più interiormente, ad essere attratto da lui e a seguirlo fino alla fine. La fede è un itinerario di trasformazione del cuore e di conformazione a quello di Gesù.

I discepoli avevano assistito ai segni miracolosi con i quali aveva salvato una festa di nozze destinata a fallire per mancanza di vino, aveva annunciato la guarigione del figlio al funzionario regio, aveva rimesso in piedi un paralitico, aveva ridato la vista ad un cieco, aveva saziato migliaia di persone, aveva risuscitato l’amico Lazzaro. Ma quel gesto non aveva nulla di miracolistico e sensazionale, anzi aveva messo in imbarazzo i discepoli al punto che Simon Pietro, giunto il suo turno, aveva messo le mani avanti cercando di impedire a Gesù di operare su di lui quel gesto così scandaloso. Come avrebbero potuto capire il significato della lavanda dei piedi uomini che, sebbene fossero discepoli del Maestro e avevano visto le sue opere e udito le sue parole, erano impregnati dello spirito del mondo? Gesù rivela a Pietro che quel segno è condizione necessaria per prendere parte con lui. Simon Pietro cede solo davanti alla prospettiva della partecipazione alla gloria. L’apostolo pensa alla gloria umana mentre Gesù ha in mente la gloria della croce.

È in essa che trova compimento il gesto della lavanda dei piedi quale segno di servizio. Il vertice della gloria è l’amore e la sua espressione più alta è il servizio. Ciò che nella mente dei discepoli sta agli antipodi, la gloria e il servizio, nel cuore di Dio invece coincidono. Gesù lo dichiarerà ufficialmente quando afferma: «Non c’è amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici». Per partecipare alla gloria di Dio è necessario lasciarsi amare fino alla fine, senza paura o imbarazzi. Salendo sulla croce Gesù scende piegandosi davanti ad ogni uomo per purificarlo. Pietro non comprende sul momento che solo il servizio genera la vera libertà. Morendo sulla croce Gesù feconda la Chiesa rendendola madre di figli. Essi, tuttavia, hanno bisogno di rimanere sempre uniti a Gesù per attingere la sapienza dell’amore dall’eucaristia nella quale Dio sempre si fa piccolo per diventare nostro nutrimento e forza.

Il gesto della lavanda dei piedi si colloca al centro dell’appuntamento usale della cena. Così l’amore di Dio s’inserisce nella routine giornaliera conferendo ai gesti della vita ordinaria un valore straordinario. La carità, di cui la lavanda dei piedi è il simbolo, deve scorrere nelle relazioni di tutti i giorni. Solo essa vivifica il nostro corpo e le nostre azioni quotidiane.

  Attraverso la croce Dio serve l’uomo e lo rende Signore, gli conferisce quella dignità che nessuno sforzo o impegno umano sarebbe capace di garantire. La libertà è un dono da custodire attraverso il servizio reciproco. Non si tratta di uno scambio di favori, un dare per avere. Il servizio che rende liberi ha come fine quello di favorire l’incontro e la relazione con l’altro, la comunione tra fratelli e con Dio, in ultima istanza. Lo scopo dell’amore non è dentro di sé ma fuori di sé. L’amore o punta alla comunione o amore non è; il servizio o favorisce la riconciliazione o servizio non è; la libertà o crea legami di fraternità o libertà non è.

ORATIO

Signore Gesù, servo per amore, aiutami a deporre le vesti dell’ambizione e dell’orgoglio. Senza di esse apparirò agli occhi di molti vulnerabile, debole, inutile. Ma cingendo il grembiule dell’umiltà tu mi darai la forza d’inginocchiarmi davanti a te riconoscendoti presente in ogni fratello, soprattutto in quello bisognoso di tenerezza, oltre che di pane. Vinci la presunzione di poter vivere senza il nutrimento dell’eucaristia, il pane del cammino verso la Pasqua finale che mi introduce nel Cielo. Donami il desiderio gioioso di essere riconciliato e concedimi la grazia di rimanere fedele alla tua missione, della quale mi rendi partecipe, di far conoscere il Padre, amarlo e servirlo in letizia.

Signore Gesù, Ti offro, i miei piedi. Ti sei piegato verso quelli dei tuoi discepoli e li hai lavati perché i piedi non sono un segno di distinzione ma di comunanza. Ti offro i miei piedi perché tu li possa lavare dalla polvere dell’ambizione. Ti offro i miei piedi perché li possa bagnare con l’acqua dello Spirito che rende liberi e dona la freschezza dell’amore. Ti offro i miei piedi perché li possa rendere forti e resistenti per continuare a camminare dietro di te sulla strada della Croce che conduce al Padre.