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Eccellenza Rev.ma

Mons. Antonio Giuseppe Caiazzo,

Vescovo di questa Arcidiocesi di Matera-Irsinia,

 

Fratelli sacerdoti e diaconi, consacrate, cari congressisti,

Sorelle e fratelli in Cristo,

È per me una profonda gioia essere qui a Matera, città dalla storia ricca e affascinante, in occasione del XXVII Congresso Eucaristico Nazionale. Sono felice di poterVi salutare a nome del Santo Padre Francesco, che domani sarà tra noi, per l’atto liturgico conclusivo di questo Incontro. Ringrazio il Vostro Arcivescovo Antonio per il fraterno invito e ciascuno, sacerdoti, diaconi, catechisti, ministri dell’Eucaristia e Voi, fratelli e sorelle in Cristo, per la Vostra presenza e l’amore che manifestate per Gesù presente nel Santissimo Sacramento.

Nel vangelo odierno il Maestro sorprende i discepoli per la seconda volta con una misteriosa profezia. Egli annuncia che “il Figlio dell’Uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini” (Lc 9, 43b-45). Pare essere una cattiva notizia! Significa che gli uomini faranno di Lui ciò che vorranno, che lo tortureranno, lo umilieranno, gli scaricheranno addosso la loro violenza e alla fine lo uccideranno. Possiamo capire cosa riveli questa profezia di Gesù se pensiamo agli uomini e alle donne che cadono nelle mani violente di altri essere umani, che sono sfruttati, violentati, resi schiavi e alla fine sono buttati via come se fossero un bagaglio inutile. Non si tratta soltanto della malavita o di quanti chiamiamo “criminali” – e lo sono! – ma in tutti noi esiste un fondo di violenza che siamo pronti a scaricare su coloro che abbiamo accanto.

Ora, mettiamoci per un attimo nei panni dei discepoli. Tutto il capitolo nono di Luca fa riferimento ai miracoli di Gesù: la moltiplicazione dei pani, la professione di fede di Pietro, la trasfigurazione – dove il Signore manifesta la sua divinità – e la guarigione di una fanciulla indemoniata. Come può un uomo che opera tanto bene essere sottoposto alla più terribile violenza umana? I discepoli sono tanti più sconcertati perché in cuor loro covavano sogni di gloria e di riconoscimento nel regno futuro che il Messia annunciava. Perciò per loro la morte cruenta del Maestro era inconcepibile, anzi rappresentava uno scandalo. Non avevano ancora inteso che la missione del Messia era invece quella di morire per la salvezza di tutti. Infatti, fino ad oggi, questo scandalo della croce irrita e scandalizza molti. Ma Dio Padre non ha voluto salvare l’uomo per mezzo di un Messia che discende dal cielo con scalpore, ma attraverso la nostra propria carne che il Suo Figlio ha assunto e portato sulla croce. È sulla sua e nostra carne che Gesù ha caricato i peccati del mondo, le nostre violenze, l’odio che siamo capaci di nutrire contro l’altro e contro Dio e le crudeltà di tutti i tempi, facendoli morire sulla croce.

Santa Teresa d’Ávila ha spesso ripetuto alle consorelle che siamo stati salvati nell’umanità di Cristo. Infatti, fuori di essa non c’è redenzione. È per la morte e risurrezione di Cristo che, nella fede e nell’acqua del battesimo, siamo diventati nuove creature. Così la croce non è più segno di morte e di disfatta, ma simbolo glorioso della vittoria sul peccato e la morte. È nella croce che scopriamo la strategia della divina umiltà, che bussa alla porta del nostro cuore per offrire sia al santo che al peccatore l’amore incondizionato di Dio. Nella tenerezza del Crocifisso svanisce la nostra durezza e diventiamo capaci di amore per l’altro, diventiamo veramente esseri umani.

Questo sacrificio della Croce si ripete in modo sacramentale ogni volta che celebriamo l’Eucaristia. Per opera dello Spirito Santo le parole del sacerdote, “questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue” rendono realmente presente Cristo risorto. Il pane e il vino sono trasformati da un elemento materiale in un dono spirituale che però soltanto gli occhi della fede possono riconoscere e comprendere. Così l’Eucaristia è veramente “Mistero della Fede”. E Gesù afferma nel Vangelo di Giovanni che è volontà del Padre suo “che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, e lo risusciti io nell’ultimo giorno” (Gio 6, 40).

Credere è perciò non un esercizio teoretico o filosofico, ma è l’impegno di essere discepoli di Cristo. Come Lui si è fatto pane di vita per noi, anche noi dobbiamo diventare pane gli uni per gli altri. Ciò implica sempre un sacrificio e l’accettazione della logica della croce, perché darsi agli altri significa consumarsi per loro, dare la vita perché gli altri la abbiano appieno. In questo consiste il “senso del mistero” scrive Papa Francesco, che “non va perduta nessuna delle (nostre) opere svolte con amore, non va perduta nessuna della (nostre) sincere preoccupazione per gli altri, non va perduto nessun atto di amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò, conclude il Papa, circola attraverso il mono come una forza di vita” (EG, 279).

Ed è l’Eucaristia che trasforma i nostri sacrifici e ogni nostra pena in forza di vita, perché nel pane e nel vino che il sacerdote offre in Cristo e con Cristo sull’altare al Padre celeste siamo presenti anche noi. Il pane non è soltanto frutto della terra, ma anche prodotto del nostro lavoro, ossia una parte di noi stessi. In questo pane, che alziamo ad onore e gloria del Padre, si trova l’energia che consumiamo nel lavoro per il bene dei figli e della famiglia, sono concentrate le sofferenze e le difficoltà di ogni giorno, le nostre lacrime e le nostre gioie. Insieme con Cristo diventiamo sacrificio di ringraziamento a lode e gloria di Dio Padre e così, nell’immensa dignità di questo sacrificio, trova il suo culmine la preghiera della Chiesa pellegrina nel mondo.    

Inoltre, fratelli e sorelle, chi riceve il Signore nell’Eucaristia non deve dimenticare che è diventato “Cristoforo”, cioè portatore di Cristo. Deve quindi dare testimonianza di una vita cristiana e annunciare senza paura la sua fede. Spesso ci vergogniamo di essere cristiani e ci nascondiamo per non essere criticati o derisi. Ma un autentico “Cristoforo” deve brillare con una vita trasparente e gioiosa in cui si riflette la speranza che vive in lui. In primo luogo un commensale di Gesù deve rinunciare alla violenza, alla vendetta, all’odio e allo svilimento dei fratelli. Al contrario siamo chiamati a vivere e testimoniare la grande gioia di essere figli e figlie di Dio con la promessa della vita eterna. È questa la gioia e l’immenso bene che dobbiamo comunicare agli altri, affinché tutti insieme possiamo essere commensali di Cristo ed eredi del dono della vita eterna. Papa Francesco ci ricorda la “dolce e confortante gioia di evangelizzare” che consiste nella trasmissione della Buona Novella. Perché, secondo il Papa, “cercare il bene dell’altro è una necessità per chi desidera vivere con dignità e pienezza”. (EG, 9). Con altre parole, la felicità consiste nel dare “la vita che si rafforza donandola e si indebolisce nell’isolamento e nell’agio” (idem). Perciò, “quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale” (idem).

Siamo quindi tutti chiamati ad essere discepoli missionari. Ma da dove viene questa forza che ha spinto la Chiesa ad evangelizzare durante i secoli?  Essa proviene, come afferma con enfasi il Concilio Vaticano II, dall’Eucaristia. Infatti, la Chiesa viene e trae la sua forza da questo Sacramento (cfr. LG, 11). L’Eucaristia è il canale attraverso cui pulsa tutta la vita della Chiesa. Dio stesso si comunica e dà vita e la rinnova, perdona e costituisce la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Nello stesso tempo è attraverso l’Eucaristia che la Comunità ecclesiale cresce e si sviluppa anche se il sacerdote dovesse celebrare da solo.  San Giovanni Paolo II, nella Lettera Enciclica “Ecclesia de Eucharistia”, ha ricordato questo mistero in modo eloquente e per molti sorprendente (cfr. EdE, 1ss; 21ss). Sin dall’inizio della sua esistenza, la Chiesa si riconosce nella frazione del pane e nella preghiera (cfr. Atti 2, 42). Nella preghiera che in Cristo rivolgiamo al Padre sono presenti tutti, dal Papa ai vivi e ai morti e l’intera umanità, da coloro che hanno vissuto nel passato a quanti condividono il nostro presente e a coloro che vivranno il futuro. Ho appreso quest’ultima espressione da un santo argentino, il Cura Brochero, un parroco di montagna che, nella regione pre-andina, curava i fedeli poveri, abbandonati e dispersi su un vasto territorio montagnoso. Quando era già vecchio, cieco e colpito dalla lebbra, ha scritto ad un suo amico Vescovo: “Ringrazio il Signore per questo tempo di ozio che mi concede, perché mi dà la possibilità di pregare per quelli del passato, del presente e del futuro”. Ecco un sacerdote che ha vissuto nel cuore della Chiesa, che ha saputo interpretare il grande mistero dell’Eucaristia e della presenza attiva del Risorto nella vita e nella storia dell’umanità di tutti i tempi.

Questo Congresso Eucaristico ci invita a “Tornare al gusto del pane” che ci apre l’orizzonte verso il futuro. Proclamiamo questa medesima speranza alla fine del momento della consacrazione quando affermiamo: “Annunziamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Ciò che speriamo e attendiamo come cristiani non è quindi un mondo terrestre in continuo sviluppo e cambiamento, ma un nuovo cielo ed una nuova terra che si realizzeranno al momento del ritorno glorioso di Cristo. Il cristiano si riconosce pellegrino in un mondo che sparirà, e spera di ottenere l’immortalità come dono del Risorto che promette: “Io sono il pane della vita disceso dal cielo: se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò e la mia carne, per la vita del mondo” (Gv 6, 51). Ogni Eucaristia che celebriamo ci spinge verso questo destino che è Dio, il quale ci nutre con il cibo degli Angeli per darci la forza di camminare e di portare la nostra croce. Perciò, chi è caduto non deve disperare, perché Dio clemente e misericordioso è sempre pronto a perdonare ed a rinnovare la vita. Chi si sente solo e abbandonato trova nell’Eucaristia conforto e consolazione e si sente dire: “Io sono con te, sempre e in ogni circostanza della vita, e non ti abbandonerò mai”. Il giovane non deve avere paura del futuro, perché chi crede e si affida alla potente mano di Dio non sarà mai deluso. Il Dio a cui si affida è fedele e pieno di misericordia e tenerezza.

Mentre camminiamo, ricordiamo che Cristo ci attende sin d’ora nel tabernacolo di ogni chiesa. Lui, il Signore del cielo e della terra, il nostro Dio e Redentore, si nasconde nelle povere specie del pane. Egli si è fatto talmente piccolo affinché nessuno abbia paura di avvicinarsi a Lui. Ogni persona, peccatore e giusto, è invitata a visitarlo per farsi guardare da Lui, per svuotare il proprio cuore dinanzi a Lui e trovare consolazione. Tutti possiamo essere certi che saremo ascoltati, perché il Signore ci ha rassicurato che sarà con noi fino alla fine dei tempi. Ciò che Egli vuole da parte nostra, scrive il Santo Padre, “è credere in Lui, credere che veramente ci ama, che è vivo, che è capace di intervenire misteriosamente, che non ci abbandona, che trae il bene dal male con la sua potenza e con la sua infinita creatività. Significa credere che Egli avanza vittorioso nella storia insieme con quelli che stanno con Lui … i chiamati, gli eletti, i fedeli (Ap 17, 14)” (EG 278).

Chiediamo a Maria di prenderci per mano e di condurci al Figlio. Madre nostra, ottienici ora un nuovo ardore di risorti per portare a tutti il Vangelo della vita e il pane che sfama, pegno di immortalità e di vita eterna. Amen.