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Pisticci Scalo (Matera) 14 settembre 2025

 

Oggi celebriamo la festa dell’esaltazione della Santa Croce. Qual è il primo sentimento o la prima parola che ci viene sentendo la parola croce? Quasi sempre è una parola di fatica, di sofferenza, malattia, lutto, separazione, peso della vita, preoccupazioni, rifiuti e così via, ingiustizie, quelle cose che pesano tanto.

Ci sono tante croci visibili nel corpo, le vedono anche gli altri, ti guardano e capiscono al volo che hai una grande croce. Ma poi ci sono quelle invisibili, che non si vedono, spessissimo non si dicono, ma si che si portano avanti, a volte tutta la vita, con grande fatica.

Allora uno dice: “Ma che cosa c’è da celebrare di esaltare la croce?”
Vedete, io penso che dobbiamo capirci su questa cosa, perché ne va della qualità e dell’autenticità della nostra fede.

Noi celebriamo, e dobbiamo celebrare, l’esaltazione della Santa Croce. La croce l’abbiamo anche nelle nostre case, ma, a scanso di equivoci, non è la prima cosa da vivere nei confronti di Gesù crocifisso e anche insegnare nella catechesi: “Guarda Gesù quanto ha sofferto, poverino”. Perché il pietismo verso Gesù non è ancora un vissuto di fede autentico. È un pietismo che ha fatto parte anche della nostra fede lungo i secoli, ma è più autentica, invece, un’altra cosa.

Nella prima lettura abbiamo ascoltato che il popolo di Israele è uscito dall’Egitto, sta andando verso la terra promessa, vaga 40 anni. E che cosa succede al popolo di Israele in questo suo peregrinare nel deserto? Che arrivano le fatiche della vita. Non hanno da mangiare, non hanno da bere; sono esposti a che cosa? Se non mangi e non bevi, che cosa rischi? Rischi di morire. E quando rischi di morire sono le croci.

Quando rischi di morire hai paura e quindi si mettono a protestare con Mosè, con Aronne e con il Signore stesso: “Ci hai fatto uscire in questo deserto per farci morire di fame? Perché ci hai fatto uscire? Stavamo bene là!”.

Quando si vive – a meno che uno non voglia soltanto sopravvivere, cioè non essere nemmeno consapevole di cosa vive, di come si sente – ma quando si vive, lungo la vita si incontrano subito tanti ostacoli, tante fatiche, tante croci.

E quando ci arriva la croce, qual è la prima reazione che noi viviamo? “Perché? Perché a me, Signore, ma perché a me?” È la prima reazione. È come se trasformassimo, senza rendercene conto, Dio nel grande incolpato della storia: tutte le ingiustizie, tutte le malattie, tutte le sofferenze, tutte le cose è il “perché” rivolto a Dio.

Ma va bene. Anche Gesù rivolge il suo “perché” sulla croce. Arriva a questo il popolo di Israele. Non si fidano più di Dio, perché quello che succede a loro è come se fosse quasi incompatibile con l’immagine di un Dio nel quale loro si fidavano, che seguivano: il Dio che è sceso in mezzo a loro per liberarli dalla schiavitù e portarli in una terra promessa dove scorre latte e miele.

Per cui il popolo dice: “O Dio si è dimenticato di noi, oppure ce l’ha con noi”. Non si fidano più. Ogni croce mette in discussione, quasi senza rendercene conto, la stessa presenza di Dio nella vita.

Allora, che cosa accade? Abbiamo ascoltato: arrivano i serpenti velenosi. Cioè, tu hai paura di morire di sete e di fame? Il serpente, col suo morso, ti porta subito la morte!

E davanti a quello che accade, cioè, muoiono in tanti per il morso dei serpenti, dicono: “Che cosa abbiamo fatto?” Forse, cioè, si rendono conto che hanno voltato il loro cuore, voltato le spalle anche con il loro cuore a Dio, per cui dicono: “Prega, intercedi, chiedi al Signore di aiutarci”. Quindi dal “perché” chiedono l’aiuto a Dio.

La croce può essere costantemente vissuta con un “perché”, un modo di vivere di protesta, quasi rabbioso, facendoci schiacciare dalla croce. Oppure può essere vissuta la croce con un grido di aiuto a Dio.

Ed è quello che fa il popolo di Israele. La soluzione che il Signore propone a Mosè: innalza il serpente, cioè proprio colui che dà la morte con il suo veleno diventa segno e simbolo da guardare ogni volta per essere salvati.

E guardate che questo simbolo del serpente di bronzo, nel suo significato, lì per lì forse non lo si capisce, ma per noi, come fede cristiana, è il vero serpente innalzato da guardare quando sei minacciato e quando sei nella croce: è Gesù crocifisso.

Perché questo? Perché, come abbiamo ascoltato nel Vangelo, dice l’evangelista: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio per salvarlo. Dio non ha mandato il Figlio per condannare il mondo, cioè per portare le croci.

Non è Dio che decide un giorno: questa a te, quella a te, quella a te. E come si dice qualche volta: “Si vede che tu sei più forte, il Signore ti ha dato una croce più grande”. Io mi sento un pochettino a disagio con un linguaggio del genere. Ve lo immaginate un padre che dice: “Questa croce va a te e quella croce va a lui”? Un po’ di disagio ce l’ho su questo.

Ma c’è un’altra cosa sulla quale però dobbiamo agganciarci. Dice l’evangelista: Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannarlo, ma per salvarlo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.

Allora, vedete, noi abbiamo Gesù crocifisso al centro della nostra fede, nelle nostre chiese, nelle nostre case. E oggi ne celebriamo l’esaltazione, perché la presenza di Gesù sulla croce ci dice fondamentalmente tre cose, brevissimamente.

La prima: Gesù sale su quella croce da innocente e non scappa. Quando lo arrestano, lo condannano, lo rinnegano, potrebbe farlo, ma rimane ad abbracciare quella passione, tutto quel rifiuto, tutto quel peso della vita che tocca a lui.

Prega nel giardino del Getsemani: “Padre, se possibile passi… ma sia fatta la tua”. Cioè, mi fido di te, Padre. Gesù rimane sulla croce come un atto di amore e di donazione totale, per dire: “Guarda, guardami, anche se muori vivrai”.

Il veleno, le croci della vita, le fatiche, le sofferenze, le malattie, anche se dovessero portare la morte, tu credi in me perché vivrai.

Allora, quindi, in primis: contemplare Gesù sulla croce è un guardare la fedeltà di Gesù a ciascuno e verso ciascuno di noi, a dire: “Io sono qui con te, cammina con me, anche se muori vivrai. Porta la tua croce con me, segui i miei passi, anche se muori vivrai”.

Perché, quando si esclude la dimensione dell’eternità, questa vita vogliamo e dobbiamo racchiuderla solo nella vita terrena. E la vita terrena, duri poco o duri molto, senza una dimensione di eternità, è quasi un’assurdità.

Quindi contempliamo Gesù fedele a noi, che ci apre la strada dell’eternità, perché lui poi risorge e noi risorgeremo con lui. Don Tonino lo chiamerebbe: “Ogni croce è una collocazione provvisoria anche nella nostra esistenza”. Tutte le croci sono provvisorie.

La seconda cosa del crocifisso è: non è che la misura dell’amore di Dio verso di te è semplicemente assenza di croce. La croce e la fede vanno di pari passo. La croce e la presenza di Dio nella nostra vita non si escludono. Il Signore non ci abbandona.

Il terzo punto è: ogni croce, qualsiasi croce che tu stia vivendo, fidati di me. Non mi rinnegare, non mi rinnegare, fidati di me. Gesù conclude la sua esistenza – uno degli evangelisti lo racconta – gridando: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. E spira.

Ecco, contemplare il crocifisso è guardare la fedeltà di Dio nella nostra vita, credere che lui sia presente e, allo stesso tempo, un invito costante ad andare avanti nella vita fidandoci di lui.

Allora, celebriamo l’esaltazione della Santa Croce perché è il segno, è la misura dell’amore di Dio nei nostri confronti che va fino in fondo. Questo dice la seconda lettura: “Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo… obbedì fino alla morte di croce. Per questo Dio lo esaltò”.

Allora, noi oggi non possiamo non guardare tutti i crocifissi della storia del nostro tempo, i crocifissi delle nostre guerre, con questa dinamica: tutte le ingiustizie, tutte le sofferenze, le lacrime che vengono versate, le guerre tra i popoli, l’inimicizia, le prepotenze tra le nazioni con questa logica della croce. Bisogna stare accanto ai crocifissi, dare speranza, alleviare la loro esistenza e la loro sorte per quanto ci sta possibile, spendere la nostra vita.

Perché anche se la spendiamo fino all’ultimo respiro, Dio ce la ridona.

Poi oggi celebriamo la giornata mondiale del creato: ieri abbiamo fatto questa riflessione a Matera, sono 10 anni dall’enciclica Laudato si’. È, in qualche modo, una dimensione di invito a tutta la Chiesa a dire: “Guarda, o rivedi tutto come dono di Dio, o rivedi tutto come un’effusione dell’amore di Dio sul mondo, oppure le tue piccole azioni rischi di stancartene e non lottare più per il regno di Dio”.

Ora, in un momento di silenzio, consegniamo al Padre le nostre croci, le croci delle persone che conosciamo, le ingiustizie di questo mondo, le guerre, le prepotenze, in qualche modo avvicinandoci attraverso lo Spirito a Gesù crocifisso e risorto, a dire: “Ci fidiamo di te. Vogliamo camminare con te, non ti rinneghiamo, anzi ti accogliamo, Gesù, nella nostra vita, perché sei l’unico che ci dà stabilità”.

Amen.