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XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) – Lectio divina
Am 6,1.4-7 Sal 145 1Tm 6,11-16

O Dio, che conosci le necessità del povero
e non abbandoni il debole nella solitudine,
libera dalla schiavitù dell’egoismo
coloro che sono sordi alla voce di chi invoca aiuto,
e dona a tutti noi una fede salda nel Cristo risorto.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.

Dal libro del profeta Amos Am 6,1.4-7
Ora cesserà l’orgia dei dissoluti.

Guai agli spensierati di Sion
e a quelli che si considerano sicuri
sulla montagna di Samaria!
Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani
mangiano gli agnelli del gregge
e i vitelli cresciuti nella stalla.
Canterellano al suono dell’arpa,
come Davide improvvisano su strumenti musicali;
bevono il vino in larghe coppe
e si ungono con gli unguenti più raffinati,
ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati
e cesserà l’orgia dei dissoluti.

Il dramma della “discomunione”
La pericope liturgica è l’ultimo dei tre «guai» con i quali il profeta denuncia la cattiva condotta della classe dirigente che esercita il potere in modo autoreferenziale e ostenta la sua ricchezza, incurante della condizione d’indigenza in cui versa una buona parte della nazione. Chi detiene un potere, economico, sociale o politico che sia, si pone in una condizione di superiorità rispetto agli altri; si giunge anche a convincersi di essere inattaccabile e invincibile. Così pensavano i Gebusei che abitavano la prima città di Gerusalemme posta sul monte Sion, e nello stesso modo ragionavano anche i notabili di Samaria. Amos sembra descrivere un mondo diviso in due: da una parte ci sono donne e uomini che vivono chiusi nel loro ambiente in cui i giorni passano tra lauti banchetti allietati da musiche e danze, e dall’altra il grido dei poveri nel quale riecheggia il pianto e il lamento di Giuseppe quando fu vittima della cattiveria e insensibilità dei suoi fratelli. Il peccato che viene denunciato da Amos è la lussuria che rende indifferenti alla cattiva sorte dei fratelli che vivono in condizione di povertà. È il dramma della “discomunione”, originata dalla ingiustizia e che genera altra ingiustizia. Prima o poi questo dramma valica i confini dei poveri e, come la peste, raggiunge anche coloro che si illudevano di avere il potere di rimanervi immuni.

Salmo responsoriale Sal 145
Loda il Signore, anima mia.

Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 1Tm 6,11-16
Conserva il comandamento fino alla manifestazione del Signore.

Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio,
il beato e unico Sovrano,
il Re dei re e Signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità
e abita una luce inaccessibile:
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre. Amen.

Illuminati dalla Parola, luminosi esempi di amore
Paolo esorta Timoteo a non lasciarsi sedurre dal cattivo esempio di chi in maniera opportunistica si serve della sua posizione nella Chiesa per curare i propri interessi e trarre vantaggio personale. La tentazione più subdola del demonio, che fa deviare dalla fede, è l’avidità. L’attaccamento al denaro si coniuga con la ricerca del consenso e del gradimento. In tal modo coloro che dovrebbero essere i destinatari di un servizio gratuito e amorevole diventano la preda di uomini senza scrupolo che soggiogano e subdolamente creano legami di dipendenza e clienti. Non sono più uomini di Dio ma persone totalmente consacrate allo spirito del mondo.
Paolo esorta Timoteo a custodire la fede rinnovandone la professione non solo a parole ma con la vita, la quale, anche se attraversa prove e difficoltà, deve tendere alla piena conformazione a Cristo, unico vero modello di umanità e santità.
Nessuno potrebbe vedere Dio se non fosse Lui a mostrarsi e nessuno potrebbe manifestare in sé Gesù se non fosse lui a comunicarsi. La vita è un continuo banco di prova nel quale siamo chiamati a dare la nostra testimonianza di figli di Dio. Paolo sembra riprendere le parole di Gesù che rivela l’azione dello Spirito Santo nel cristiano soprattutto quando è chiamato in giudizio per dare conto della sua fede e della speranza che è in lui. La testimonianza non è solo una professione di fede verbale ma è una confessione esistenziale nella quale riverbera, mediante la forza dello Spirito Santo, la Parola di Dio. Lo Spirito non solo illumina la notte del dubbio e della solitudine con la luce della verità e della consolazione, ma ci rende luminosi ispirando scelte e operazioni impregnate di carità fraterna.
Dalla croce Gesù offre lo Spirito e lo riversa nei nostri cuori. A noi il compito di custodirlo come la terra fa col seme perché germogli e porti frutto. Così chi medita la Parola di Dio custodisce il comandamento dell’amore fraterno che diventa criterio unico per ogni opzione fondamentale della vita.

Dal Vangelo secondo Luca Lc 16,19-31
Nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.

In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Lectio
La pagina del vangelo di domenica scorsa si chiudeva con un detto sapienziale di Gesù: non si possono servire due padroni… Dio e la ricchezza. L’evangelista Luca riferisce che i farisei, attaccati al denaro, sbeffeggiavano Gesù che denunciava il loro comportamento ipocrita. Essi si ritenevano giusti davanti agli uomini e, come tali, alimentavano l’idea che la ricchezza fosse segno della benedizione di Dio e, parimenti, la povertà fosse lo stigma della sua maledizione. Questa concezione religiosa distorta allarga il divario tra Dio e gli uomini e la separazione degli uomini tra di loro. La venalità contrasta con la fedeltà, sicché Dio e le persone vengono usati e poi scartati quando non sono più di gradimento. Gesù, infatti, parla di adulterio, indicando con questo peccato quello d’idolatria e di sfruttamento delle persone.
La parabola è costruita fondamentalmente di due scene che non vanno lette solamente come consecutive sul piano temporale, ma anche come due punti di vista, quello degli uomini e quello di Dio. Poco prima Gesù aveva detto ai farisei: “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole” (v. 15). Infatti, nella prima scena è presentata una persona ricca, senza nome, cioè senza una identità definita, e Lazzaro, una persona povera.
L’uomo ricco è descritto in modo molto attraente per il lettore che, affascinato dal suo stile di vita agiato, potrebbe commentare: beato lui! Mentre Lazzaro è lo scarto tra gli scartati: è alla porta insieme con l’immondizia e gli fanno compagnia i cani, simbolo degli impuri e degli esclusi. Essi non competono con lui nell’accaparrarsi il cibo dai rifiuti ma gli leccano le ferite. Il primo ha tante cose, il secondo ha chi lo consola. Il ricco epulone si comporta in maniera opposta all’amministratore della parabola precedente che invece si “converte” a guadagnare l’amicizia dei poveri piuttosto che accumulare per sé ricchezze, le quali poi dovrà lasciare.
La prima scena descrive lo sfarzo, l’opulenza e l’allegria del ricco dentro casa sua e la miseria, condivisa con i cani, di Lazzaro che è fuori. Questo è lo sguardo dei farisei che separano i “benedetti”, che stanno dentro la casa di Dio, partecipano a solenni riti con paramenti sontuosi e offrono sacrifici di comunione che culminano in lauti banchetti, e i Lazzaro che sono fuori, gli esclusi, i rifiuti.
La descrizione del ricco epulone indugia sul vestito e sul cibo. Il ricco non ha nome perché la sua identità è nascosta dai titoli, riconoscimenti e presunti meriti. I quotidiani lauti banchetti dicono l’insaziabilità nella ricerca del piacere. Le feste sono solo bagordi nei quali non si mangia per nutrirsi ma per ostentare la sfacciata opulenza. La ricerca ossessiva dell’approvazione degli altri e del piacere porta ad un drammatico svuotamento interiore e isolamento sociale.
La parabola del ricco epulone e di Lazzaro passa dal punto dell’osservazione umana in cui non si esprime un giudizio ma si descrive la realtà, al punto di vista di Dio. Egli fa giustizia ai poveri, come annuncia Amos nella prima lettura, e dona loro quella ricompensa che è riservata a tutti quelli che gli rimangono fedeli anche nei momenti della prova. Non c’è la condanna ma solo il dono che viene goduto, da chi si è fatto accogliente, ma che invece si perde, per chi invece ha scelto di essere refrattario.
Arriva per tutti il momento della morte che rivela il modo con cui Dio vede le cose. Non si tratta di una ricompensa o punizione che Dio dà, quanto invece la rivelazione di ciò che l’uomo ha scelto di essere. Il ricco è solo, vuoto, mancante, mentre Lazzaro è con il padre Abramo e partecipa con lui alla pace, cioè alla pienezza del bene. La morte accomuna tutti e al contempo essa sancisce definitivamente le separazioni che abbiamo posto durante la vita. Se l’attaccamento ai beni terreni ci ha resi indifferenti, chiusi in noi stessi, preferendo essi alle persone, soprattutto a quelle più vicine, la morte viene a rendere definitiva la scelta fatta.
Il dialogo tra Abramo e il ricco è fatto di due preghiere in cui si chiede l’aiuto di Lazzaro affinché allevi le sue sofferenze e vada ad ammonire i suoi cinque fratelli rivelando loro le conseguenze di una vita vissuta inutilmente. Il ricco conosce Lazzaro per nome ma lo tratta come un servo. Entrambe le suppliche vengono respinte perché se le mie scelte creano una distanza dagli altri, non posso chiedere che siano questi a venire da me. Se innalzo muri e rompo i ponti come posso chiedere che Dio e gli altri mi aiutino? Se credo che la vera benedizione consista nell’ avere a disposizione tanti beni, se ho preferito accumulare titoli e onori per dimostrare a me stesso e agli altri quanto valgo, ho già ricevuto la mia ricompensa, che però svanisce ben presto lasciandomi nei tormenti della solitudine. Invece, se nella povertà trovo comunque il modo di condividere e fare comunione, allora sono consolato e il mio cuore è nella gioia.
Anche la seconda richiesta viene respinta perché la Legge e i Profeti, cioè la Parola di Dio, già contiene l’invito a scegliere se imboccare la via dell’obbedienza a Dio per la vita o dell’indifferenza per la morte.
Si potrebbe obiettare che il ricco non ha fatto nulla di male per andare agli inferi e Lazzaro non sembra abbia fatto qualcosa di particolarmente buono per meritare il paradiso. Infatti, quello che viene descritto è lo stile di vita condotto. Quello del ricco è dipendente dal piacere, quello di Lazzaro è caratterizzato dalla mite attesa dell’aiuto di Dio. L’attaccamento alla ricchezza porta a bruciare di avidità e a chiudersi nell’indifferenza, mentre vivere le prove della vita confidando in Dio e aprendosi alla comunione fraterna garantisce la vera benedizione che è la vita eterna.
Noi che ascoltiamo la Parola di Dio siamo ancora in tempo perché possiamo assumere il Suo punto di vista che è quello più vero. Lasciamoci scuotere dalla Parola di Dio perché, iniziando la rivoluzione a partire da noi stessi, possiamo renderci conto di quanto sia vera e bella la promessa di Gesù: «Vado a prepararvi un posto perché dove sono io siate anche voi» (Gv 14,2).
Il paradiso non si conquista a scapito degli altri, ma solamente con gli altri perché la vita eterna non è il traguardo da tagliare ma una festa di famiglia da preparare e da vivere come fratelli.

Meditatio
L’inutile elemosina e la giusta misericordia

La parabola ha come soggetto principale un uomo ricco che conduceva una vita comoda e agiata. Un uomo che tutti avrebbero potuto dire fortunato o anche benedetto. Alla sua porta c’era un povero di nome Lazzaro, un misero mendicante, abbandonato da tutti, tranne dai cani che gli leccavano le ferite, che tutti avrebbero definito un uomo sfortunato. La morte accomuna i due uomini che la «sorte», così avrebbe potuto pensare qualcuno, aveva differenziato assegnando a uno i suoi beni e all’altro i suoi mali. Se la storia si fermasse qui sarebbe legittima la domanda: perché esiste l’ingiustizia, per cui c’è chi ha tanto e chi ha nulla, perché la vita è così iniqua che riserva la fortuna ad alcuni e la disgrazia ad altri?
In realtà la storia continua perché la morte ribalta la sorte per cui il povero Lazzaro entra ricco in cielo e il ricco si ritrova in mezzo ai tormenti degli inferi. Lì si ricorda di Lazzaro, che in vita aveva sempre ignorato, e gli chiede aiuto per alleviare le sue sofferenze. La risposta di Abramo rende esplicito il peccato del ricco. L’indifferenza crea un abisso incolmabile, facendo della differenza una distanza abissale. L’uomo ricco più che domandarsi come godere dei beni ricevuti, avrebbe dovuto interrogarsi su come impiegarli per il bene anche degli altri. La vita diventa ingiusta quando è goduta solo per sé stessi.
Se il ricco avesse rinunciato a qualche piacere avrebbe sentito un po’ della fame di Lazzaro e se avesse tolto qualcosa da sé avrebbe accorciato le distanze dal fratello. La morte ristabilisce la giustizia negata dagli uomini. Per cui il povero viene saziato dei beni che gli sono stati rifiutati e il ricco perde la vita che invece ha preteso di godere solo per sé.
Le briciole che cadono dalla tavola del ricco sono l’inutile elemosina di quelle persone che danno agli altri gli scarti, senza lasciarsi ferire dal loro dolore.
La carità è il compendio della Parola di Dio e della giustizia. Ascoltarla significa praticare la misericordia, ovvero rendere il cuore misero per fare proprio il dolore del fratello e condividerlo offrendo ciò che si ha e ciò che si è.

Oratio
Signore Gesù,
tu che ti sei fatto povero per arricchirci
e hai condiviso la fraternità
per condurci tutti in Paradiso,
scuotimi dal torpore dell’indifferenza
e rendi il mio cuore sensibile
al dolore del misero.
Il mio occhio non si abitui
a vedere scene di povertà ma
illuminato dalla tua Parola sia attento
a cogliere anche quelle nascoste
per provarne vera compassione.
Il mio orecchio non si stanchi
di ascoltare il grido del misero
ma con l’aiuto del tuo Spirito
il mio cuore possa aprirsi
ad accogliere il suo anelito
e la mia voce si unisca alla sua
per invocare giustizia.
Le mie spalle non si alzino
in segno di rassegnazione
ma ti chiedo di renderle più forti
perché possa farmi carico
del peso dei miei fratelli più deboli e soli. Amen.