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II DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B)

Gen 22,1-2.9.10-13.15-18   Sal 115   Rm 8,31-34  

O Dio, Padre buono,

che hai tanto amato il mondo da dare il tuo Figlio,

rendici saldi nella fede,

perché, seguendo in tutto le sue orme,

siamo con lui trasfigurati

nello splendore della tua luce.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.


Dal libro della Gènesi Gen 22,1-2.9.10-13.15-18

Il sacrificio del nostro padre Abramo.

In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».

Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».

Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.

L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».

La (s)legatura

Il capitolo 22 di Genesi è tra i più drammatici per il racconto da cui trasuda tensione fin dalla prima parola. Dio mette alla prova Abramo! Si tratta di una verifica che avviene a conclusione di un itinerario iniziato a Carran dove Abram era stato raggiunto dalla parola del Signore. Anche in quel caso un imperativo, «vattene da …». Dio gli chiede di separarsi dalla casa di suo padre, di lasciare tutto ciò che appartiene a lui, per andare verso una terra che Dio gli farà vedere. Il test serve a rivelare qualcosa che è ancora nascosto. Isacco è un dono di Dio che Abramo ha ricevuto. La verifica intende portare in luce le intenzioni di Abramo nel ricevere il dono, cioè quale relazione instaura con lui. È dunque in gioco la paternità di Abramo. Non basta avere avuto un figlio per essere padre. Per esercitare la paternità bisogna impostare in un determinato modo la relazione con il figlio. Abbiamo già visto in precedenza che la relazione coniugale è stata sanata non perché si è stati fertili, ma perché si è diventati fecondi lasciando che la benedizione di Dio potesse concretizzarsi attraverso un rapporto coniugale riequilibrato.

A Dio che chiama per nome Abramo, lui risponde prontamente con il suo eccomi. Dio lo cerca, lui si fa trovare pronto. Il comando che il Signore gli rivolge ha qualcosa di ambiguo che la traduzione non fa cogliere a pieno ma che la tradizione ebraica ha notato. Dopo aver detto ad Abramo di prendere con sé Isacco, il suo unico figlio, quello amato (unito a lui) e di andare nel territorio di Mòria, comanda: «Fallo salire là per un olocausto». Il comando non dice esplicitamente di offrirlo in sacrificio ma parla in maniera vaga lasciando lo spazio a due interpretazioni.

Al lettore appare chiara l’intenzione di Dio di far emergere la verità ma più ancora di mettere Abramo in crisi in modo tale che la sua scelta lo faccia passare definitivamente sul versante della verità o rimanere su quello della menzogna. In altri termini la domanda riguarda la scelta di relazione che Abramo vuole costruire con Dio e con Isacco. Il figlio unigenito che ama, ovvero quell’unico figlio che gli è rimasto, dopo che ha lasciato andare Ismaele, lo vuole trattenere per sé come un bene che gli appartiene in maniera esclusiva? Oppure riconoscerà in lui il segno della benevolenza del Signore e si aprirà all’altro con fiducia?

Il comando di Dio è volutamente ambiguo perché dall’interpretazione che ne darà Abramo e dalla scelta che farà si rivelerà nella sua vera personalità. In ebraico l’aggettivo unico significa anche unito. Così come lo stesso aggettivo unico in forma sostantivata è sinonimo di Dio e della vita. Dunque, la domanda che crea la suspance si pone in questi termini: Abramo terrà legato a sé Isacco facendolo salire con sé per assistere al sacrificio richiesto oppure lo farà salire come sacrificio, ovvero lo riconoscerà come dono di Dio e lo restituirà come contro-dono a Lui in segno di alleanza? In un certo senso la fecondità della sua paternità dipende dall’umiltà con la quale vive la sua figliolanza a Dio.

Il racconto a questo punto ha un ritmo molto rallentato e le stesse parole di Abramo ai servi prima e la sua risposta a Isacco lasciano il lettore nel vago intuendo così anche il travaglio del patriarca che cerca di capire il senso del comando di Dio e la scelta da compiere. Si può pensare che Abramo si sia posto domande cruciali. È possibile che Dio chieda una cosa che va contro la natura? Un padre potrebbe mai uccidere il proprio figlio, potrebbe una persona, sana di mente, rinunciare alla sua unica vita? Tuttavia, non è altrettanto contro natura legare a sé un figlio sacrificandolo sull’altare della propria possessività? Se Abramo scegliesse di sacrificare suo figlio non si assumerebbe la responsabilità di far naufragare quel progetto che Dio stesso gli ha chiesto di realizzare con Lui? Può Dio chiedergli di assumersi tale responsabilità?

La promessa del ritorno che Abramo fa ai servi è una menzogna perché non intervengano in maniera indebita o perché la sua fiducia è tale che crede che ritornerà da loro con il figlio. La risposta che Abramo dà ad Isacco che gli chiede dove sia l’agnello dell’olocausto: «Dio vedrà per lui l’agnello per l’olocausto» e un modo per celare al figlio le sue reali intenzioni o ha fiducia in Dio che provvederà al sacrificio?

Quali siano le intenzioni di Abramo lo veniamo a sapere solo quando il Patriarca lega Isacco. Ancora il ritmo del racconto rallenta quasi a voler dare tempo a Dio per il suo intervento. Ormai Abramo ha fatto la sua scelta e ha optato per quella più esigente, sacrificare suo figlio.

Ormai quando la intenzione della scelta è chiara Dio chiama Abramo come aveva fatto all’inizio e Abramo risponde prontamente «Eccomi» come se stesse aspettando quella parola. A Dio è bastata vedere l’intenzione di Abramo, quello che nel suo cuore ha scelto di essere. Abramo non si è lasciato vincere dalla paura alimentata dalla cupidigia, non ha voluto trattenere per sé il figlio per garantirsi l’avvenire, ma lo ha offerto a colui che lo aveva donato.

Abramo aveva detto a Isacco che Dio avrebbe visto per lui l’agnello; il patriarca alzando gli occhi vede un ariete e lo offre al posto di Isacco. Quell’ariete, padre dell’agnello, significa Abramo stesso, padre di Isacco, che Dio ha visto perché lui si è lasciato vedere offrendosi sull’altare. Abramo offrendo l’ariete rinuncia alla paternità intesa come possesso, per riceverla da Dio come un dono per sempre.

Quel luogo acquista un nome che ricorda il faccia a faccia tra Dio e Abramo in cui si vede e ci fa federe segno di una relazione nella quale c’è una reciprocità nel dare e nel ricevere, nell’accogliere e nel donare. Dio garantisce ad Abramo che si compirà ciò per cui ha scelto d’impegnare tutta la sua vita: non il possesso di beni, ma l’essere mediatore per tutti i popoli di quella benedizione che non ha trattenuto per sé ma che ha scelto di farne un dono per tutti.

Salmo responsoriale Sal 115

Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.

Ho creduto anche quando dicevo:

«Sono troppo infelice».

Agli occhi del Signore è preziosa

la morte dei suoi fedeli.

Ti prego, Signore, perché sono tuo servo;

io sono tuo servo, figlio della tua schiava:

tu hai spezzato le mie catene.

A te offrirò un sacrificio di ringraziamento

e invocherò il nome del Signore.

Adempirò i miei voti al Signore

davanti a tutto il suo popolo,

negli atri della casa del Signore,

in mezzo a te, Gerusalemme.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani Rm 8,31-34

Dio non ha risparmiato il proprio Figlio.

Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?

Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!

Un amore a prova di dubbio

San Paolo fa sue le domande dubbiose dei credenti che la cui fede è messa in crisi dalle prove della vita ma anche da coloro che si spacciano per maestri ma sono degli impostori. Nella sofferenza e nella consapevolezza del proprio peccato sorge la domanda sull’effettivo perdono di Dio o, invece, guarda con occhi di sospetto. Rispondendo l’apostolo ribadisce il cuore del Vangelo: Dio Padre per amore ha donato suo Figlio per rendere giusto l’uomo e santificarlo. Egli, crocifisso e risorto, è il nostro protettore e intercessore. La potenza del suo sacrificio annienta la forza del peccato e ci ristabilisce nella relazione filiale con Dio nella quale troviamo la nostra gioia.

+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 9,2-10

Questi è il Figlio mio, l’amato.

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.

Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.

Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

LECTIO

Il racconto dell’evento della Trasfigurazione va letto alla luce delle Scritture ebraiche, in particolare quelle nelle quali avviene una Teofania, ovvero Dio si manifesta. Il racconto di Es 24 potrebbe aiutarci a cogliere la portata della narrazione di Marco che pone in evidenza il tema della identità di Gesù. Dopo la domanda posta ai discepoli e la risposta di Pietro che confessava la sua certezza che egli fosse «il Cristo», Gesù inizia ad offrire un insegnamento nuovo rispetto a quello dato fino a quel momento. La predicazione in Galilea, suffragata dalle guarigioni e dagli esorcismi, si era concentrata sulla presenza del regno di Dio e sulla necessità di coltivare la fede per godere dei suoi benefici. L’esperienza missionaria condivisa con i discepoli è stata portata avanti non senza crisi che hanno fatto emergere una dopo l’altra le questioni scottanti riguardanti l’autorità di Gesù e la novità del suo insegnamento. Con il primo annuncio della passione (8,31s.) l’insegnamento di Gesù ha come oggetto l’evento della Pasqua nella quale il Figlio dell’uomo avrebbe dovuto subire la passione a causa delle autorità religiose e la morte per poi risorgere il terzo giorno. Pietro rimane sconcertato da questa prospettiva e si oppone, ma Gesù lo richiama all’ordine e, rivolgendosi alla folla insieme ai discepoli, chiarisce quali siano le condizioni per seguirlo. Gesù indica la sofferenza non come fine della vita ma come mezzo per giungere alla salvezza, ovvero il tempo nel quale il Figlio dell’uomo inaugurerà il regno datogli dal Padre suo (8, 38; 9, 1). Dalle parole di Gesù si delinea all’orizzonte del cammino l’evento della Pasqua attraverso il quale si rivelerà a tutti il Regno di Dio annunciato. Non si tratta solo di una profezia, ma Gesù vuole offrire una parola che guidi i suoi discepoli nel dramma degli eventi pasquali al fine prendere con lui la croce, attraversare la passione e giungere alla salvezza. È comprensibile che la strada tracciata e indicata da Gesù fa paura perché appare più drammaticamente reale la prospettiva della morte e molto meno quella della risurrezione che rimane qualcosa di incomprensibile in quanto non appartiene all’esperienza umana. La novità dell’insegnamento di Gesù sta nell’indicare la meta del suo cammino e della sua missione nella risurrezione che è il compimento del senso della sua vita e di quella di coloro che scelgono di seguirlo. È la risurrezione la «gloria del Padre suo» e «il regno di Dio nella sua potenza».

In questo contesto Gesù prende l’iniziativa di salire su un alto monte portando con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni. I discepoli assistono ad un evento improvviso e inedito. Vedono le vesti di Gesù assumere uno splendore tale da far comprendere che non può essere opera umana, ma divina. Gli occhi dei tre discepoli contemplano anche la presenza di Mosè ed Elia che dialogano con Gesù. A quella vista Pietro cerca di esprimere lo stupore di ciò che sta accadendo e che vorrebbe continuasse ancora. Le sue parole sono interrotte dal sopraggiungere di una nube che li avvolge e dalla quale proviene una voce che si rivolge al loro indicando in Gesù il Figlio, l’amato, e invitandoli ad ascoltarlo. Il messaggio celeste chiude anche la visione, terminata la quale gli apostoli, guardandosi attorno, non vedono che Gesù solo con loro. Non hanno il tempo di chiedergli spiegazioni perché ricevono l’ordine di non proferire parola con nessuno fino al momento della risurrezione dai morti. Gli apostoli avevano sentito parlare della risurrezione dei morti, non della risurrezione dai morti e quindi si domandano tra loro cosa significasse.

La questione sulla identità di Gesù posta sin dalle prime battute del racconto evangelico e messo a tema dalla domanda rivolta dal Maestro ai suoi discepoli, riveste un ruolo fondamentale nella narrazione dell’evento. La gente, compreso molti discepoli, ascoltando il suo insegnamento e conoscendo il suo potere taumaturgico pensa che Gesù sia un vero uomo di Dio sul modello di Elia o di uno dei profeti. Pietro nella sua risposta ha osato spingersi fino a identificarlo con il Cristo, cioè con l’Unto di Dio, il consacrato dal Signore per essere re d’Israele. La risposta di Pietro ha indotto Gesù a pensare che fossero maturi i tempi per definire più chiaramente i lineamenti della sua identità ricorrendo all’immagine del «Figlio dell’uomo» che è presente negli oracoli profetici che annunciano l’intervento di Dio per instaurare il suo regno ed esercitare la sua potestà. La letteratura apocalittica alimenta la speranza dell’avvento di Dio che viene con potenza a fare giustizia, condannando i colpevoli e premiando i giusti. Nel momento in cui Dio fosse intervenuto contro i suoi nemici il suo popolo sarebbe stato finalmente libero. L’attesa messianica è carica di tensione di carattere sociale ed economico che fa passare in secondo piano quello spirituale. La dimensione religiosa della vita è posta in connessione con i problemi di carattere politico da cui derivano le ingiustizie e gli squilibri sociali. Detto in altri termini, la fede è vissuta seguendo le regole mutuate dal sistema sociale mettendo in ombra la dimensione spirituale della persona, quella, cioè, che attiene il suo cuore e la libera determinazione di sé stesso. Gesù viene a mettere in crisi una certa teologia per la quale la salvezza coincide con il mutamento dello scenario socio-politico-economico tali da poter garantire sulla libertà e il benessere delle singole persone. L’insegnamento di Gesù mira a far cambiare punto di vista per assumere quello di Dio il quale viene non per ristabilire un ordine sociale teocratico nel quale l’autorità divina si fonde e si confonde con quella mondana, ma per creare un nuovo ordine nel quale vige solo la legge dell’amore. La gente, compreso i discepoli, ha visto in Gesù quello che ha voluto vedere, proiettando in lui la comune speranza mondana. La fede dei poveri, di qualsiasi religione o nazione fossero, li ha spinti ad avvicinarsi a Gesù per avere con lui un contatto diretto e hanno sperimentato la sua forza sanante.

Gesù guida tre dei suoi discepoli, forse quelli più restii a comprendere la portata della sua missione, a fare un’esperienza con lui, loro soli. Gli stessi erano stati tra i discepoli gli unici testimoni insieme ai suoi genitori del «risveglio» della figlia di Giairo (Mc 5, 21s.). Il «monte alto» richiama il luogo sacro dal quale Dio tutto vede e giudica, ma anche sul quale Il Signore si mostra, si fa vedere, si rivela. Nella prima lettura il racconto del sacrificio d’Isacco pone l’accento sul fatto che Dio vede Abramo, cioè partecipa con lui al momento più drammatico, ma anche il più bello e fecondo della sua vita. Dio non si ferma al gesto del sacrificio, ma all’intenzione del suo cuore. Quello di Abramo è veramente un cuore libero e tutto orientato al dono di sé. Il Signore in Abramo vede se stesso e il patriarca, vera icona del Dio invisibile, diventa veramente quello che dice il suo nome: padre di una moltitudine. Benedetto diviene mediatore di benedizione per tutti. Attraverso Abramo l’alleanza di Dio è offerta a tutti.

La trasfigurazione è un evento nel quale opera la mano di Dio. Le vesti indicano la persona nella sua identità e dignità. Il lembo del suo mantello è già stato un simbolo della potenza insita nella persona di Gesù. Il vestito nel racconto della Pasqua svolge un ruolo importante. La narrazione si apre e si conclude con la figura del «giovinetto» che prima fugge via nudo lasciando cadere il lenzuolo di cui era coperto e poi lo ritroviamo nel sepolcro rivestito di una veste bianca nel giorno della risurrezione. La nudità del giovinetto è la cifra simbolica della passione di Gesù che viene spogliato di tutto e muore «solo»; lo stesso giovinetto rivestito della veste bianca indica il Cristo Risorto che da Dio ha ricevuto la nuova dignità, come Abramo dopo la rinuncia a possedere il figlio e trattenerlo per sé, è stato benedetto e reso fecondo perché generatore della vita alla moltitudine dei suoi figli.

La conversazione di Gesù con Elia e Mosè indica ai discepoli che essi, nel loro rapporto con il Maestro devono ispirarsi ad Elia e a Mosè che nei momenti più difficili della loro missione hanno cercato il dialogo con il Signore. La reazione di Pietro, da una parte rivela il fatto che non sono spettatori passivi e dall’altra che si fanno portare dall’entusiasmo senza però lasciarsi interrogare sul senso di ciò che sta accadendo. Si sentono interpellati e Pietro si fa portavoce di tutti esprimendo la loro gioia nell’essere lì con lui e partecipare così intimamente a quel momento di grazia. Stanno talmente bene che vorrebbero creare le condizioni perché quella situazione permanga per il tempo più lungo possibile. I discepoli non hanno ancora compreso che lo stare con Gesù deve necessariamente tradursi nella missione; dal monte è necessario scendere per le strade. La fede non può ridursi a esperienze di benessere psico-spirituale o pseudo spirituale prive dello slancio missionario.

La nube e la voce sono un chiaro segno della presenza di Dio già rilevata nel mutamento delle vesti di Gesù. Il Padre, come era intervenuto al battesimo rivolgendosi a Gesù, parla ai discepoli indicando in lui suo Figlio, l’amato. La voce del Padre conferma la parola di Gesù sul destino del «Figlio dell’uomo». Gesù è il Figlio di Dio e figlio dell’uomo. La sua umanità sarà oggetto delle umiliazioni attraverso le quali Dio rivela quanto e come ami gli uomini. Egli stesso, attraverso suo Figlio, si carica del peccato degli uomini, perché essi possano ricevere attraverso di lui la benedizione e diventare suoi figli.

Ascoltare significa fidarsi di lui e seguirlo fino alla croce. Quello è il monte alto sul quale veniamo trasfigurati e diveniamo immagine di Dio.

MEDITATIO

Legàmi slegati

Nella seconda domenica di Quaresima dal deserto siamo condotti su un «alto monte». Più che luoghi fisici sono spazi dell’anima. Lo Spirito spinge Gesù nel deserto dove rimane per quaranta giorni ad indicare che l’amore spinge Dio nel farsi prossimo all’uomo per prendersi cura di lui soprattutto nella prova. Gesù conduce su un alto monte tre dei suoi discepoli per stare con loro soli, in disparte. L’uomo è raggiunto da Dio nella sua condizione di precarietà e limite per rivelarsi come colui che lo ama, lo salva (risorge) dalla morte e dà una forma nuova alla sua vita.

Il Sal 115 offre la testimonianza di fede dell’orante che prega Dio e crede in lui anche se il suo animo è triste. Nella prova sentiamo che le cose non vanno come devono andare, almeno come crediamo noi che debbano andare. Come per Abramo anche a noi la vita sembra costantemente richiederci qualcosa che ci appartiene e a cui ci siamo legati. Isacco è il figlio amato, l’unico, ossia quello al quale il padre si sente unito, una cosa sola. La vicenda di Abramo insegna che la fede è un cammino in salita attraverso il quale siamo educati a «slegare» le persone che amiamo, ossia a sciogliere i legacci che trattengono gli altri come fossero un tesoro da possedere. Comunemente viviamo l’amore come «legarci a qualcuno» e avvertiamo paura quando sentiamo di essere destinatari di un amore del genere. Il cammino di fede è essenzialmente un cammino di purificazione dell’amore affinché esso sia generativo e non possessivo. Non si tratta di «liberarci» dei legami ma di «liberare» le relazioni, ossia rendere l’amore veramente libero attraverso il gesto del sacrificio. Abramo diventa padre d’Isacco, non quando lo concepisce, ma quando lo dona a Dio, slegandolo da sé per riceverlo nuovamente come dono da Lui. La vicenda di Abramo fa intravedere il volto di Dio che non è un despota che getta lacci per controllarci e gestirci, ma è un padre che educa i suoi figli ad amare come lui li ama.

La fede è un cammino di trasformazione, o meglio diremmo, di trasfigurazione, attraverso il quale Dio ci rende partecipe della sua forma, cioè del suo modo di vivere e di amare. L’evangelista Marco si serve dell’immagine della veste che simboleggia la «forma» di vita. San Paolo afferma che Gesù non considerò la sua «forma» (condizione di vita) divina un tesoro da tenere stretto per sé, ma svuotò sé stesso per assumere la «forma» (la condizione di vita) umana, facendosi servo fino alla morte di croce (Fil 2). Gesù nella passione viene spogliato delle vesti e appare in tutta la sua nudità. Sulla croce, povero di tutto, egli offre l’unica cosa che gli rimane, la vita. Essa non gli viene tolta ma lui stesso la offre. È lì che Dio si fa vedere! Nella morte in croce Dio mostra lo splendore della sua gloria, la potenza del suo amore riconosciuta dal centurione: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio». Sulla croce Dio si rivela come Padre che per amore non risparmia suo figlio, non lo trattiene per sé, ma lo «slega», lo offre in dono per noi uomini peccatori.

La trasfigurazione che avviene sul monte è anticipazione e rivelazione dell’evento della croce. Quando siamo tristi e consapevoli di portare la nostra croce la voce del Padre ci ricorda che Gesù la vive con noi. Ascoltarlo significa lasciarci accompagnare da lui perché impariamo a non subirla come un’ingiustizia, ma a viverla come un tempo di grazia nel quale conformarci a Cristo per fare della nostra vita un dono insieme con lui. Il tempo della Quaresima invita all’ascolto più frequente e sostanzioso della Parola di Dio perché solo essa ci nutre e ci guida nel cammino verso la gioia della Pasqua. La Parola di Dio converte il nostro cuore, lo purifica dalla tendenza alla possessività come quella espressa da Pietro e che echeggia l’atteggiamento di Eva davanti al frutto proibito. Tendenzialmente siamo portati a fissare la felicità illudendoci che chiudendola dentro le nostre mani possiamo trattenerla e possederla.

La voce di Dio esprime innanzitutto l’indicativo: «Questi è il Figlio mio, l’amato». Gesù, che s’identifica con il servo sofferente, è come Isacco per Abramo. Gesù è il figlio di Dio, è tutt’uno col Padre, non perché sono uniti da legami di possesso, ma perché, amandosi, sono l’uno un dono per l’altro. Il contenuto fondamentale della rivelazione di Dio sul monte riguarda il suo legame di padre nei confronti del figlio. Gesù crocifisso è il dono di Dio offerto a noi uomini, è il modo con il quale si dichiara nostro Padre. Dopo l’indicativo viene l’imperativo: «Ascoltatelo». Ascoltare Gesù significa accogliere la sua parola nel nostro orizzonte mentale, farci guidare dal suo esempio nelle scelte quotidiane e unirci a lui nelle gioie e nelle speranze, nelle tristezze e nelle angosce della vita.

Lo splendore della trasfigurazione indica che la meta della nostra vita è la felicità intesa non come godimento possessivo dei beni, ma come relazione di amore con Dio e i fratelli; un amore veramente libero e che genera persone libere. 

ORATIO

Signore Gesù, tu vedi il mio sforzo di comprenderti nel vano tentativo di farti entrare dentro i miei schemi mentali. Quanto più mi impegno a far andare le cose come dico io, tanto più esse vanno nel senso contrario alle mie attese. Che possa cogliere nei miei limiti e nei miei fallimenti l’opportunità di uscire da me stesso e aprirmi a Te per lasciarmi amare. Aiutami a cambiare la forma delle mie abitudini di pensare, di parlare e di agire affinché non cada nei lacci della seduzione del potere e non sia accecato dai bagliori della gloria umana. La tua Parola sia per me luce che permetta ai miei occhi di riconoscerti tra i più poveri e, ascoltandoti, possa sentirmi attratto dalla tua libertà e coltivare il desiderio di unirmi a Te. Rendimi libero, sciogli i nodi che mi rendono schiavo del peccato. Insegnami ad amare non legando gli altri a me, ma slegandoli da me per donarli a Te.