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Il terzo giorno, come ogni giorno del Congresso, è cominciato con la Celebrazione Eucaristica in Cattedrale, presieduta da S. Ecc. Mons. Emil Paul Tscherrig, Nunzio Apostolico in Italia.

Alle ore 10.45, come da programma, si è tenuta la meditazione della Prof.ssa Giuseppina De Simone, Docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, trasmessa in streaming in tutte le parrocchie sedi del Congresso.

Nel pomeriggio, alle ore 17.00, si è svolta la Processione Eucaristica, partita dalla parrocchia San Pio X (in piazza Giovanni XXIII) e terminata in piazza San Francesco d’Assisi.

È stata presieduta dal nostro Arcivescovo, S. Ecc. Mons. Antonio Giuseppe Caiazzo. L’Eucaristia è stata portata in processione da Mons. Francesco Savino e da Mons. Erio Castellucci, Vicepresidenti della CEI, da Mons. Giuseppe Baturi, Segretario Generale della CEI, e da Mons. Gianmarco Busca, Presidente della Commissione Episcopale per la Liturgia.

Si riportano di seguito i momenti salienti di questa giornata.

Omelia della Santa Messa presieduta da S. Ecc. Mons. Emil Paul Tscherrig, Nunzio Apostolico in Italia

Eccellenza Rev.ma

Mons. Antonio Giuseppe Caiazzo,

Vescovo di questa Arcidiocesi di Matera-Irsinia,

 

Fratelli sacerdoti e diaconi, consacrate, cari congressisti,

Sorelle e fratelli in Cristo,

È per me una profonda gioia essere qui a Matera, città dalla storia ricca e affascinante, in occasione del XXVII Congresso Eucaristico Nazionale. Sono felice di poterVi salutare a nome del Santo Padre Francesco, che domani sarà tra noi, per l’atto liturgico conclusivo di questo Incontro. Ringrazio il Vostro Arcivescovo Antonio per il fraterno invito e ciascuno, sacerdoti, diaconi, catechisti, ministri dell’Eucaristia e Voi, fratelli e sorelle in Cristo, per la Vostra presenza e l’amore che manifestate per Gesù presente nel Santissimo Sacramento.

Nel vangelo odierno il Maestro sorprende i discepoli per la seconda volta con una misteriosa profezia. Egli annuncia che “il Figlio dell’Uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini” (Lc 9, 43b-45). Pare essere una cattiva notizia! Significa che gli uomini faranno di Lui ciò che vorranno, che lo tortureranno, lo umilieranno, gli scaricheranno addosso la loro violenza e alla fine lo uccideranno. Possiamo capire cosa riveli questa profezia di Gesù se pensiamo agli uomini e alle donne che cadono nelle mani violente di altri essere umani, che sono sfruttati, violentati, resi schiavi e alla fine sono buttati via come se fossero un bagaglio inutile. Non si tratta soltanto della malavita o di quanti chiamiamo “criminali” – e lo sono! – ma in tutti noi esiste un fondo di violenza che siamo pronti a scaricare su coloro che abbiamo accanto.

Ora, mettiamoci per un attimo nei panni dei discepoli. Tutto il capitolo nono di Luca fa riferimento ai miracoli di Gesù: la moltiplicazione dei pani, la professione di fede di Pietro, la trasfigurazione – dove il Signore manifesta la sua divinità – e la guarigione di una fanciulla indemoniata. Come può un uomo che opera tanto bene essere sottoposto alla più terribile violenza umana? I discepoli sono tanti più sconcertati perché in cuor loro covavano sogni di gloria e di riconoscimento nel regno futuro che il Messia annunciava. Perciò per loro la morte cruenta del Maestro era inconcepibile, anzi rappresentava uno scandalo. Non avevano ancora inteso che la missione del Messia era invece quella di morire per la salvezza di tutti. Infatti, fino ad oggi, questo scandalo della croce irrita e scandalizza molti. Ma Dio Padre non ha voluto salvare l’uomo per mezzo di un Messia che discende dal cielo con scalpore, ma attraverso la nostra propria carne che il Suo Figlio ha assunto e portato sulla croce. È sulla sua e nostra carne che Gesù ha caricato i peccati del mondo, le nostre violenze, l’odio che siamo capaci di nutrire contro l’altro e contro Dio e le crudeltà di tutti i tempi, facendoli morire sulla croce.

Santa Teresa d’Ávila ha spesso ripetuto alle consorelle che siamo stati salvati nell’umanità di Cristo. Infatti, fuori di essa non c’è redenzione. È per la morte e risurrezione di Cristo che, nella fede e nell’acqua del battesimo, siamo diventati nuove creature. Così la croce non è più segno di morte e di disfatta, ma simbolo glorioso della vittoria sul peccato e la morte. È nella croce che scopriamo la strategia della divina umiltà, che bussa alla porta del nostro cuore per offrire sia al santo che al peccatore l’amore incondizionato di Dio. Nella tenerezza del Crocifisso svanisce la nostra durezza e diventiamo capaci di amore per l’altro, diventiamo veramente esseri umani.

Questo sacrificio della Croce si ripete in modo sacramentale ogni volta che celebriamo l’Eucaristia. Per opera dello Spirito Santo le parole del sacerdote, “questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue” rendono realmente presente Cristo risorto. Il pane e il vino sono trasformati da un elemento materiale in un dono spirituale che però soltanto gli occhi della fede possono riconoscere e comprendere. Così l’Eucaristia è veramente “Mistero della Fede”. E Gesù afferma nel Vangelo di Giovanni che è volontà del Padre suo “che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, e lo risusciti io nell’ultimo giorno” (Gio 6, 40).

Credere è perciò non un esercizio teoretico o filosofico, ma è l’impegno di essere discepoli di Cristo. Come Lui si è fatto pane di vita per noi, anche noi dobbiamo diventare pane gli uni per gli altri. Ciò implica sempre un sacrificio e l’accettazione della logica della croce, perché darsi agli altri significa consumarsi per loro, dare la vita perché gli altri la abbiano appieno. In questo consiste il “senso del mistero” scrive Papa Francesco, che “non va perduta nessuna delle (nostre) opere svolte con amore, non va perduta nessuna della (nostre) sincere preoccupazione per gli altri, non va perduto nessun atto di amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò, conclude il Papa, circola attraverso il mono come una forza di vita” (EG, 279).

Ed è l’Eucaristia che trasforma i nostri sacrifici e ogni nostra pena in forza di vita, perché nel pane e nel vino che il sacerdote offre in Cristo e con Cristo sull’altare al Padre celeste siamo presenti anche noi. Il pane non è soltanto frutto della terra, ma anche prodotto del nostro lavoro, ossia una parte di noi stessi. In questo pane, che alziamo ad onore e gloria del Padre, si trova l’energia che consumiamo nel lavoro per il bene dei figli e della famiglia, sono concentrate le sofferenze e le difficoltà di ogni giorno, le nostre lacrime e le nostre gioie. Insieme con Cristo diventiamo sacrificio di ringraziamento a lode e gloria di Dio Padre e così, nell’immensa dignità di questo sacrificio, trova il suo culmine la preghiera della Chiesa pellegrina nel mondo.    

Inoltre, fratelli e sorelle, chi riceve il Signore nell’Eucaristia non deve dimenticare che è diventato “Cristoforo”, cioè portatore di Cristo. Deve quindi dare testimonianza di una vita cristiana e annunciare senza paura la sua fede. Spesso ci vergogniamo di essere cristiani e ci nascondiamo per non essere criticati o derisi. Ma un autentico “Cristoforo” deve brillare con una vita trasparente e gioiosa in cui si riflette la speranza che vive in lui. In primo luogo un commensale di Gesù deve rinunciare alla violenza, alla vendetta, all’odio e allo svilimento dei fratelli. Al contrario siamo chiamati a vivere e testimoniare la grande gioia di essere figli e figlie di Dio con la promessa della vita eterna. È questa la gioia e l’immenso bene che dobbiamo comunicare agli altri, affinché tutti insieme possiamo essere commensali di Cristo ed eredi del dono della vita eterna. Papa Francesco ci ricorda la “dolce e confortante gioia di evangelizzare” che consiste nella trasmissione della Buona Novella. Perché, secondo il Papa, “cercare il bene dell’altro è una necessità per chi desidera vivere con dignità e pienezza”. (EG, 9). Con altre parole, la felicità consiste nel dare “la vita che si rafforza donandola e si indebolisce nell’isolamento e nell’agio” (idem). Perciò, “quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale” (idem).

Siamo quindi tutti chiamati ad essere discepoli missionari. Ma da dove viene questa forza che ha spinto la Chiesa ad evangelizzare durante i secoli?  Essa proviene, come afferma con enfasi il Concilio Vaticano II, dall’Eucaristia. Infatti, la Chiesa viene e trae la sua forza da questo Sacramento (cfr. LG, 11). L’Eucaristia è il canale attraverso cui pulsa tutta la vita della Chiesa. Dio stesso si comunica e dà vita e la rinnova, perdona e costituisce la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Nello stesso tempo è attraverso l’Eucaristia che la Comunità ecclesiale cresce e si sviluppa anche se il sacerdote dovesse celebrare da solo.  San Giovanni Paolo II, nella Lettera Enciclica “Ecclesia de Eucharistia”, ha ricordato questo mistero in modo eloquente e per molti sorprendente (cfr. EdE, 1ss; 21ss). Sin dall’inizio della sua esistenza, la Chiesa si riconosce nella frazione del pane e nella preghiera (cfr. Atti 2, 42). Nella preghiera che in Cristo rivolgiamo al Padre sono presenti tutti, dal Papa ai vivi e ai morti e l’intera umanità, da coloro che hanno vissuto nel passato a quanti condividono il nostro presente e a coloro che vivranno il futuro. Ho appreso quest’ultima espressione da un santo argentino, il Cura Brochero, un parroco di montagna che, nella regione pre-andina, curava i fedeli poveri, abbandonati e dispersi su un vasto territorio montagnoso. Quando era già vecchio, cieco e colpito dalla lebbra, ha scritto ad un suo amico Vescovo: “Ringrazio il Signore per questo tempo di ozio che mi concede, perché mi dà la possibilità di pregare per quelli del passato, del presente e del futuro”. Ecco un sacerdote che ha vissuto nel cuore della Chiesa, che ha saputo interpretare il grande mistero dell’Eucaristia e della presenza attiva del Risorto nella vita e nella storia dell’umanità di tutti i tempi.

Questo Congresso Eucaristico ci invita a “Tornare al gusto del pane” che ci apre l’orizzonte verso il futuro. Proclamiamo questa medesima speranza alla fine del momento della consacrazione quando affermiamo: “Annunziamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Ciò che speriamo e attendiamo come cristiani non è quindi un mondo terrestre in continuo sviluppo e cambiamento, ma un nuovo cielo ed una nuova terra che si realizzeranno al momento del ritorno glorioso di Cristo. Il cristiano si riconosce pellegrino in un mondo che sparirà, e spera di ottenere l’immortalità come dono del Risorto che promette: “Io sono il pane della vita disceso dal cielo: se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò e la mia carne, per la vita del mondo” (Gv 6, 51). Ogni Eucaristia che celebriamo ci spinge verso questo destino che è Dio, il quale ci nutre con il cibo degli Angeli per darci la forza di camminare e di portare la nostra croce. Perciò, chi è caduto non deve disperare, perché Dio clemente e misericordioso è sempre pronto a perdonare ed a rinnovare la vita. Chi si sente solo e abbandonato trova nell’Eucaristia conforto e consolazione e si sente dire: “Io sono con te, sempre e in ogni circostanza della vita, e non ti abbandonerò mai”. Il giovane non deve avere paura del futuro, perché chi crede e si affida alla potente mano di Dio non sarà mai deluso. Il Dio a cui si affida è fedele e pieno di misericordia e tenerezza.

Mentre camminiamo, ricordiamo che Cristo ci attende sin d’ora nel tabernacolo di ogni chiesa. Lui, il Signore del cielo e della terra, il nostro Dio e Redentore, si nasconde nelle povere specie del pane. Egli si è fatto talmente piccolo affinché nessuno abbia paura di avvicinarsi a Lui. Ogni persona, peccatore e giusto, è invitata a visitarlo per farsi guardare da Lui, per svuotare il proprio cuore dinanzi a Lui e trovare consolazione. Tutti possiamo essere certi che saremo ascoltati, perché il Signore ci ha rassicurato che sarà con noi fino alla fine dei tempi. Ciò che Egli vuole da parte nostra, scrive il Santo Padre, “è credere in Lui, credere che veramente ci ama, che è vivo, che è capace di intervenire misteriosamente, che non ci abbandona, che trae il bene dal male con la sua potenza e con la sua infinita creatività. Significa credere che Egli avanza vittorioso nella storia insieme con quelli che stanno con Lui … i chiamati, gli eletti, i fedeli (Ap 17, 14)” (EG 278).

Chiediamo a Maria di prenderci per mano e di condurci al Figlio. Madre nostra, ottienici ora un nuovo ardore di risorti per portare a tutti il Vangelo della vita e il pane che sfama, pegno di immortalità e di vita eterna. Amen.

Meditazione della Prof.ssa Giuseppina De Simone, Docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale

“Il gusto buono del nostro pane. Chiesa, Sinodalità, Eucarestia”

 

Il pane di tutti e di ciascuno

«Il paese dove siamo nati e dove siamo cresciuti ci ha donato il sapore del suo pane. Quando il destino ci spinge o ci esilia in un’altra terra, ce lo portiamo con noi, in noi. Chi perde questo sapore, perde una parte del proprio paese e di se stesso. Ognuno porta in sé la propria storia del pane spesso come un segreto» Così scrive Pedrag Matvejevic nel suo libro Pane nostro frutto di una ricerca sulla storia del pane condotta per venti anni seguendo la traccia di un ricordo della propria storia familiare intrecciata a quella della terra ucraina durante la Seconda guerra mondiale.

La storia del pane abbraccia l’intera storia dell’umanità. Il pane è più antico della scrittura e del libro e niente forse più del pane racconta l’umanità. Il cammino che ha condotto dal chicco crudo a quello cotto, dalla farina al pane è stato lungo. Ma «l’uomo che preparò il pane era diverso dai suoi antenati. Si era affacciato alle soglie della storia» (13). «L’origine del pane accompagna la trasformazione dei nomadi in stanziali, del cacciatore in pastore, di entrambi nell’agricoltore» (12). E con l’agricoltura nascono gli insediamenti umani, il paesaggio si trasforma, il tempo viene suddiviso in stagioni mesi settimane. Quella del pane è una storia che attraversa terre e popoli. Non sappiamo «dove e quando germogliò la prima spiga di grano» (11). Dal Corno d’Africa dagli altopiani dell’Etiopia e dell’Eritrea, dall’Egitto e dalle pianure della “mezzaluna fertile”, dall’Africa e dall’Oriente lungo la storia i semi sono stati trasportati e trapiantati da una terra all’altra. «I cereali trasportati dall’Est e dal Sud hanno contribuito all’incremento del numero degli abitanti dell’Ovest e del Nord» (175). E insieme ai semi viaggiavano «l’esperienza e il bisogno» (41).  Le conoscenze sul grano e sul pane sono state tramandate di generazione in generazione. E nel contatto tra i popoli, negli scambi e nelle dominazioni «ognuno imparava da qualcun altro. Ma non in tutte le circostanze sappiamo chi è “l’altro” e per quali ragioni potrebbe esserlo» (64).  Il pane è «prodotto della natura e della cultura» (17). La qualità del pane e del grano dipende dalla specie del seme e dalla fertilità del terreno nel quale germoglia e cresce (cf 23) dalla qualità dell’acqua usata per impastarlo, dal sale, dal lievito, dal tipo di legno messo a bruciare nel forno o nel focolare (cf 26) ma anche «il lavoro e la fatica del corpo diventano pane» (28).

Non c’è un unico pane. Le modalità di lavorazione, le forme, il sapore cambiano da paese a paese e nascono da storie diverse legate alla specificità dei territori e alla vita che in essi si è resa possibile, alle vicende che l’hanno segnata. Recano in sé l’ingegno la fantasia, la fatica dei tempi di siccità, di carestia o di guerra, l’allegria dei giorni di festa, l’intimità della vita quotidiana. Ci sono pani diversi così come diversi sono i nomi che designano il pane e i pani nelle differenti culture. Ma ovunque, e qualunque sia la forma e la denominazione del pane, le parole usate rimandano al senso della protezione e della custodia, così come a quello del dono e dell’ospitalità. Il pane nutre e preserva ed è pane condiviso e da condividere. Nelle lingue indoeuropee e nelle lingue germaniche e nordiche la radice è la stessa della parola padre. «I derivati latini e romanzi di pane (m) hanno prodotto le parole composte che stanno a indicare la relazione tra coloro che dividono il pane comune» (182).  Il pane unisce e distingue. Ci accomuna pur nella più grande diversità.

Qualunque sia il suo sapore il pane ha il gusto di quel che è comune, il sapore della condivisione più elementare ma anche più intima, «non è figlio della solitudine» (204), nasce dal lavoro fatto insieme ed è così forte il legame con gli esseri umani da motivare la corrispondenza, più volte messa a tema, tra il pane e il corpo. «Quando il pane è vero il corpo è sano» (20). Tutti i cinque sensi, l’olfatto, il tatto, la vista e perfino l’udito, ognuno a modo loro sono collegati al pane e insieme ne accolgono il dono. «In alcuni paesi islamici – scrive Matvejevic – si infila il pollice nella pasta prima di metterlo sul fuoco o nel forno, per confermare che a farlo è stata la mano dell’uomo. “Il cuore del pane” – la mollica dell’interno estremo – veniva posto sulle ferite da taglio per fermare il sangue e rimarginarlo. Il corpo ferito lo recepiva, quasi sottomettendosi» (22).

Il pane unisce, crea legami, ma può anche dividere, essere usato per scavare solchi profondi fra gli esseri umani: quando è sottratto o alterato; quando diventa strumento di potere o di ricatto, di dominio economico e culturale.

«Nei periodi di estrema fame e durante le peggiori epidemie si macinava e si impastava nelle varie parti del mondo tutto ciò che poteva essere usato come surrogato del grano» (34) per necessità, ma anche per speculazione, e si diffondevano così ulteriori terribili malattie che decimavano la popolazione. Ancora oggi succede là dove la carestia e la guerra disegnano scenari di miseria e di estrema precarietà. Sulla disponibilità di grano e di pane da sempre si gioca la forza o la debolezza del potere. Affamare un altro popolo vuol dire creare le condizioni per assoggettarlo. Ma anche controllare i flussi e gli approvvigionamenti dei cereali determina una situazione di dipendenza e di controllo della vita di paesi e di popoli (come stiamo purtroppo vedendo nella guerra che si combatte in Ucraina).

Il pane che manca racconta della drammaticità dei conflitti, anche di quelli dimenticati o nascosti, e della devastazione che producono. Attesta la pervasività dei sistemi di potere: di quelli visibili e di quelli invisibili, che agiscono sulle sorti dei popoli e gestiscono gli equilibri del mondo.

La storia del pane di ieri e di oggi racconta gli assoggettamenti e le dipendenze, ma anche i percorsi di liberazione: come il pane azzimo del popolo di Israele o come il pane condiviso con i fuggiaschi e i prigionieri durante i conflitti di ogni tempo, il pane della pietà e della interiore rivolta contro la logica della violenza e della negazione dell’altro, il pane distribuito ai poveri perché custodisca la loro dignità, e il pane ritrovato nel recupero di colture e di tradizioni antiche oltre la massificazione omologante di una certa globalizzazione.

Il pane conserva in sé la memoria: di quello che è stato, della parte migliore del passato o delle sue ferite. È viatico per il tempo che viene. Il gusto del pane attraversa il tempo e si apre sull’eternità. «Resti di grano e pane si sono conservati nei sepolcri, accanto alle urne e ai sarcofagi, nelle piramidi – là dove ci si congedava dalla vita terrena nella speranza di una vita eterna» (16-17).  «Il pane è presente nelle fede e nella preghiera». È il pane dei pellegrini, il pane dell’offerta, il pane delle feste religiose (vivaio di una grande varietà di tipi di pane), il pane dell’elemosina, della sobrietà, della condivisione e della giustizia. «Spesso il percorso del pane e quello della religione si sono sovrapposti o hanno camminato paralleli» (83).

Nel gesto del Signore Gesù. Il pane che ci fa Chiesa

Il racconto del pane, così profondamente intrecciato alla storia degli esseri umani, questo legame così intimo e antico con l’umano in quanto tale e in tutte le sue sfaccettature, nel gesto del Signore Gesù è come raccolto e trasfigurato, assunto nella sua Pasqua, sorgente inesauribile di una pienezza di vita e di umanità. Nella Pasqua del Signore Gesù il pane diventa sacramento di salvezza. Non cambia il colore, il sapore, non vengono cancellate le ferite della storia e neppure la diversità dei percorsi, il pane rimane pane ma è la vita di Dio per noi che ci è data attraverso quel pane ed è la nostra vita in Dio che quel pane rende possibile – nelle ferite e nei legami – principio e viatico di una pienezza di umanità. Se il pane nutre e custodisce, il pane spezzato del corpo di Cristo ci stabilisce e ci custodisce nella relazione che ci fa umani, nella relazione a Dio da cui vengono e in cui sono rese possibili tutte le nostre relazioni, quella relazione filiale che è la sostanza più profonda del Cristo, e che in Lui, nella sua carne, diventa carne della nostra carne: “figli nel Figlio”. Quel pane nutre il nostro essere in relazione, ci fa relazione. Un pane spezzato, condiviso, che ci fa pane: un corpo solo, essendo diversi.

Dal gesto del Signore Gesù nasce la Chiesa che è in Cristo sacramento di salvezza, sacramento di comunione in Colui che è una sola cosa con il Padre nello Spirito santo.

Se la liturgia è lo spazio privilegiato della comprensione della fede, se essa è mistagogia, introduzione al mistero della salvezza intuito percepito e narrato nelle preghiere e nei riti, è nella liturgia eucaristica che possiamo cogliere in maniera nitida l’intimo nesso tra il pane eucaristico e il nostro essere Chiesa.

La preghiera eucaristica se considerata nella sua unità e nella sua interna articolazione, come ci invita a fare nei suoi magistrali scritti padre Cesare Giraudo, attesta chiaramente questo nesso di interazione dinamica, ci conduce quasi per mano a scoprirlo. Ma bisogna ben ascoltarla, avvertirne interiormente il movimento di senso. Nella struttura della preghiera eucaristica alla lode resa a Dio, il rendere a lui grazie (nel Prefazio), segue la supplica, l’invocazione dello Spirito in una duplice epiclesi: sui doni, il pane e il vino, perché vengano trasformati nel corpo e nel sangue di Cristo; e su di noi, perché comunicando al corpo e al sangue di Cristo siamo trasformati in un solo corpo. «Santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito, perché diventino per noi il Corpo e il Sangue del Signore nostro Gesù Cristo» e «Ti preghiamo umilmente: per la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo». (Così recita ad esempio la II preghiera eucaristica della liturgia latina)

Pur non trovandosi immediatamente l’una dopo l’altra, «le due richieste costituiscono di fatto un’unica e indivisibile supplica» (Giraudo) . E l’accento cade su quel “per noi” e sulla seconda invocazione. L’Eucaristia ci è data perché diventiamo in Cristo un solo corpo, un solo corpo con Lui e per ciò stesso un solo corpo tra di noi.

La transustanziazione del pane e del vino è per la nostra transustanziazione nel corpo ecclesiale grazie alla comunione al corpo sacramentale. «Da sostanza di dispersione dovuta alla nostra fragilità e ai nostri egoismi, – scrive Giraudo -noi diventiamo sostanza di raduno escatologico, ossia membra armonicamente compaginate con Cristo, “il capo di quel corpo che è la Chiesa” (Col 1,18)». Una trasformazione che è “escatologica” perché “già” avvenuta e “non ancora” perfettamente compiuta; un processo di crescita ecclesiale che la celebrazione dell’eucaristia rende sempre di nuovo possibile. Diventiamo corpo di Cristo, lasciando che sia quel pane a nutrirci, accogliendolo in noi, custodendone la storia e il mistero in una tensione che è insieme verticale e orizzontale, o meglio orizzontale perché verticale: corpo di Cristo, uniti a lui, e con lui al Padre nello Spirito Santo, e, per questo, Chiesa, una sola cosa tra di noi.

Le intercessioni della preghiera eucaristica allargano questa domanda di trasformazione in un solo corpo a tutte le porzioni di Chiesa che nel momento della celebrazione non sono fisicamente presenti. E la dossologia finale attesta in un crescendo la direzione di senso in cui questo divenire si pone, e ci pone, abbracciando l’intera umanità e il cosmo tutto: l’avvento del Regno in cui domandiamo a Dio di introdurci per glorificarlo senza fine.

Il termine ultimo e il fine proprio della celebrazione eucaristica è dunque il “Cristo ecclesiale” vale a dire l’edificazione della Chiesa. «Celebriamo l’eucaristia per ottenere dal Padre la trasformazione in un solo corpo, ossia nel corpo ecclesiale, escatologico, mistico» (Giraudo).  La presenza reale non ci è stata data solo perché possiamo adorare Cristo sotto le specie eucaristiche; ma perché nutrendoci di quel pane possiamo diventare Chiesa sempre di più e sempre di nuovo: porzione di una nuova umanità, segno sacramentale di quei cieli nuovi e terra nuova che tutti attendiamo, promessi dal Signore Gesù e resi possibili dalla sua Pasqua, popolo di Dio in cammino che vive dell’amore di Dio, da quest’amore è nutrito e continuamente rigenerato. Perché questo amore, mistero di comunione, possa trasformare il tempo e il cosmo e rendere l’umanità tutta una cosa sola.

«Nella consegna del gesto sacramentale» che custodisce il darsi della Vita di Dio a noi, «l’irrevocabile prossimità di Dio per l’intera storia, si stabilisce – come scrive Pierangelo Sequeri – la matrice generativa dell’intera realtà-di-chiesa che ne deve seguire e conseguire». La ripetizione di quel gesto «santifica la Chiesa, rendendola dovunque e sempre di nuovo disponibile per la testimonianza» del Vangelo. La liturgia eucaristica «mostra a tutti l’altezza delle promesse consegnate dal Signore per il tempo della sequela»; «rende trasparente l’autentico principio e la vera portata della missione dei Discepoli» della missione della Chiesa. Non abbiamo qui una comunità che celebra se stessa o che celebra per se stessa. L’autoreferenzialità è spezzata in radice, così come ogni chiusura che salvaguardi dal mescolarsi alla storia del mondo. «Il Signore – scrive ancora Sequeri – non è sequestrato dai pochi, rimane a disposizione dei molti – a cominciare dai poveri, dagli abbandonati, dai perduti – per i quali il Corpo del Verbo [il pane della Vita] è dato. Non importa quanto lontani siano».

Un cammino sinodale nel segno del Pane

Il cammino sinodale che stiamo vivendo come Chiese che sono in Italia e come Chiesa tutta, spinge a ritrovare tutto questo, a ritornare al gusto del pane: ritrovare il gusto del pane che salva, del pane condiviso e da condividere, del pane spezzato perché tutti abbiano la Vita e l’abbiano in pienezza.

L’interrogativo fondamentale che guida la consultazione di popolo attivata – e che è già sinodo e non semplicemente una sua fase preparatoria- centrando l’attenzione sulla sinodalità, sulla forma della Chiesa che rende credibile l’annuncio del Vangelo, conduce a ritrovare quel che ci fa Chiesa, il principio e fondamento di quella forma comunionale che è propria della Chiesa e che chiede di essere sempre di nuovo ri-formata, di essere resa sempre più trasparente e più solida. La forma Ecclesiae ha bisogno di essere compresa sempre di nuovo e ri-modulata nel tempo, dentro la storia dell’umanità che la Chiesa condivide essendo ad essa intrecciata, accogliendo le sollecitazioni che da questa storia vengono, non in una logica di passivo adattamento ma perché da sempre il cammino della Chiesa non è separabile da essa e perché da sempre la verità del Vangelo si lascia comprendere nella particolarità dei tempi e dei luoghi in cui risuona nella logica dell’Incarnazione. La verità che ci è affidata è viva e in essa cresciamo camminando, a volte anche inciampando e cadendo per poi rialzarci, con l’umanità tutta di cui condividiamo il desiderio e la ricerca, ma anche la sofferenza e gli erramenti.

Per questo non bisogna temere di ascoltare la storia, ossia la vita delle persone, dei popoli, le culture. L’ascolto della Parola del Signore, il riconoscimento della sua presenza e della sua azione salvifica, passa anche attraverso la capacità di discernere i segni dei tempi, quel discernimento che la Chiesa è chiamata a vivere nel suo insieme e di cui come popolo di Dio stiamo facendo esperienza nel cammino sinodale. Ascoltare che cosa lo Spirito dice alle Chiese, ascoltando le voci di tutti.

In questo ascolto a tutto campo, nell’assunzione di quello stile di dialogo che è l’indole propria della Chiesa, il cuore pulsante, il centro irradiante, fonte e culmine a cui sempre ritornare è la celebrazione dell’Eucaristia e il mistero che in essa si rinnova rendendosi visibile nel segno del pane.

Non si tratta allora tanto di cercare una corrispondenza puntuale tra la celebrazione eucaristica in quanto azione di popolo e l’azione l’esperienza sinodale, ma di ricordare che nessuna riforma ecclesiale è possibile se ci si separa dall’essenzialità della celebrazione eucaristica e dalla verità dell’evento che in essa accade.

Tornare ad essere pane è quello che ci è chiesto. Nel pane della Vita che ci fa pane è la radice e il senso di quello che siamo come Chiesa ed è l’ampiezza della missione che alla Chiesa è affidata fino agli estremi confini.

È il mistero di una comunione che è pienezza di relazione, di una unità che non è uniformità ma armonia delle differenze, come papa Francesco non si stanca di ripetere, perché ciascuno è unito a Cristo Gesù e all’unico corpo ecclesiale, nella unicità di quel che è e che vive e nella unicità del dono dello Spirito per la vita della comunità. E guai se si perdesse il sapore di questa unicità, proprio come nel pane fatto bene, nel buon pane, si avverte la traccia degli elementi che lo compongono e che in esso si fondono in una unità di fragranza senza confondersi. La diversità non è l’opposto dell’unità ma la sua condizione più autentica.

Così nella Chiesa la fioritura di carismi e ministeri non ostacola l’unità ma contribuisce a realizzarla ed è ad essa orientata se suscitata dall’azione dello Spirito, se impariamo ad avvertirci membra gli uni degli altri, a comprendere le diverse vocazioni in rapporto le une alle altre e la vocazione di ciascuno nella relazione alla comunità.

Non si tratta allora di semplificare, compattare, razionalizzare, ma di articolare, arricchire, far fiorire, nella docilità all’azione dello Spirito.

Il cammino sinodale spinge a riscoprire l’intimo nesso tra unicità e unità, particolare e universale nella vita e nella missione della Chiesa, quel nesso che è nel mistero della salvezza realizzata in Cristo Gesù e in cui la celebrazione eucaristica ci immerge sempre di nuovo.

«Questo è, in definitiva il tesoro nel campo che la comunità possiede. – scrive Pierangelo Sequeri – Il seme che deve fruttificare, all’inizio, è realmente il corpo dato del Signore, nella nuova famiglia umana – la adelphotes che si raccoglie da ogni tribù lingua e nazione e tiene insieme i diversi – che ascolta la Parola, si nutre del pane disceso dal cielo, si lascia toccare, guarire, benedire dal Signore Gesù. Una comunità in cui il padrone e lo schiavo, il giudeo e il greco, l’uomo e la donna, stanno insieme, con la stessa dignità dei figli dell’Unico Padre, non si era mai vista. Il primo scandalo evangelico – fecondo di una storia completamente nuova fra gli umani – fu proprio questo stare insieme». E questo stare insieme nella diversità, avendo la stessa dignità, una cosa sola essendo diversi, «deve ritornare ad irradiare la sua luce e la sua forza, nella città secolare, multi-religiosa».

Essere segno di fraternità nella vita del mondo; annuncio di una fraternità possibile nell’incontro tra popoli culture religioni.

In un mondo in cui manca il pane, in cui ad essere affamati sono prima di tutto e paradossalmente i paesi dove la storia del pane è iniziata, in un mondo stravolto dai cambiamenti climatici, attraversato da flussi migratori che la carestia e le guerre alimentano sempre di più, e dove ci si continua ad arricchire a dismisura e a consumare le risorse comuni a vantaggio di pochi, la Chiesa non si stanca di chiedere che venga ascoltato il grido dei poveri, degli scartati, e il grido della terra. E sa di dover essere essa stessa lo spazio in cui questo grido viene accolto nell’attivazione di esperienze di solidarietà ma anche di percorsi di ricerca per una nuova economia perché la storia del pane si rinnovi e il pane non manchi sulla tavola di nessuno, sia il pane di tutti e di ciascuno.

In un mondo che è lacerato da divisioni e di guerre la Chiesa non si stanca di essere pane che riconcilia e unisce, costruendo ponti tessendo relazioni tra i popoli le culture le religioni. Non si stanca di chiedere e di annunciare la pace possibile, sperando oltre ogni speranza e lavorando perché nel riconoscimento reciproco siano poste le condizioni di un’autentica pace.

Questa è la testimonianza tenace e indefettibile di papa Francesco ed è il cammino della Chiesa chiamata ad essere nel suo Signore pane spezzato per la vita del mondo.

È il cammino di tutti noi credenti in Cristo Gesù. Un cammino nel segno del pane.

Processione Eucaristica

Riflessione di S. Ecc. Mons. Caiazzo a conclusione della processione

“Chiamati a servire la vita”

 

Carissimi,
al termine di questa Processione Eucaristica e prima di ricevere la solenne benedizione, “la nostra anima”, come quella di Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, “magnifica il Signore e il nostro spirito esulta in Dio nostro Salvatore”.

E mentre in questi giorni siamo tornati a gustare il pane, riscoprendone il profumo, la fragranza, spezzandolo e condividendolo, il nostro sguardo, la nostra mente e il nostro cuore hanno fatto danzare il nostro corpo di gioia, proprio come Giovanni Battista nel seno di Elisabetta.

Una gioia che sarà ogni giorno sempre più vera e piena nella misura in cui quanto contempliamo e adoriamo nel cibo di vita eterna avverrà nei tanti ostensori che ci mostrano esposti quanti nella solitudine della loro vita restano chiusi nel loro dolore, nella loro passione, nel sentirsi emarginati.

Nel pane eucaristico che stiamo adorando c’è sì il Cristo realmente presente e vivo, ma nudo, spogliato, abbandonato, crocifisso. Di certo questa adorazione deve portarci ad adorarlo e a commuoverci servendo la vita, sempre e comunque: dal suo concepimento al suo morire, rispettando le diverse fasi della stessa vita.

Ogni momento dell’esistenza ha bisogno di essere accompagnato, sostenuto, liberato dalle tante schiavitù vecchie e nuove. Non si può adorare Cristo presente nell’Eucaristia sfuggendo quel senso di responsabilità che ci fa sentire pane spezzato e vino versato aiutando la dignità in ogni corpo abusato, violentato, calunniato, additato, ucciso e buttato nelle fosse comuni.

Perché il pane si possa gustare e inebriandosi del suo profumo è necessario che nella sua preparazione la pasta sia posseduta dal lievito madre. I cristiani nel mondo siamo chiamati ad essere sale, luce, lievito che fa fermentare ogni cosa.

Non si può adorare Cristo nella messa e combattere una guerra santa, invitando tanti giovani ad arruolarsi. Siamo o non siamo figli dell’Eucaristia, cioè di quel Dio che si è fatto carne per amore?

Il tempo che stiamo vivendo lo sentiamo gravido di responsabilità e di speranza. Sono vere le parole dell’esortazione di Papa Francesco Christus vivit (CV): “Chiediamo al Signore che liberi la Chiesa da coloro che vogliono invecchiarla, fissarla sul passato, frenarla, renderla immobile. Chiediamo anche che la liberi da un’altra tentazione: credere che è giovane perché cede a tutto ciò che il mondo le offre, credere che si rinnova perché nasconde il suo messaggio e si mimetizza con gli altri. No. È giovane quando è se stessa, quando riceve la forza sempre nuova della Parola di Dio, dell’Eucaristia, della presenza di Cristo e della forza del suo Spirito ogni giorno. È giovane quando è capace di ritornare continuamente alla sua fonte” (CV 35; cfr. CV 161).

Concludo con questa preghiera del Venerabile Don Tonino Bello:

 Innamorati

Signore, se ci innamorassimo di te,
così come nella vita ci si innamora
di una creatura, o di una povera idea,
il mondo cambierebbe.

Accresci la nostra tenerezza per la tua Eucaristia,
verso la quale la disaffezione di tanti cristiani
oggi si manifesta in modo preoccupante.

Stiamo diventando aridi,
come ciottoli di un greto disseccato dal sole d’agosto.
Lascia che la nuvola della tua grazia si inchini dall’alto
sulla nostra aridità.

Signore, in te le fatiche si placano,
le nostalgie si dissolvono, i linguaggi si unificano,
le latitudini diverse si ritrovano,
la vita riacquista sempre il sapore della libertà.

Insegnaci a portare avanti nel mondo
e dentro di noi la tua Risurrezione.
Tu sei presente nel Pane,
ma ti si riconosce nello spezzare il pane.

Aiutaci a riconoscere il tuo Corpo nei tabernacoli scomodi
della miseria e del bisogno, della sofferenza e della solitudine.

Rendici frammenti eucaristici,
come tante particole che il vento dello Spirito,
soffiando sull’altare, dissemina lontano,
dilatando il tuo “tabernacolo”. Amen.